Non vendo vino e compro solo quello che consumo, curiosando fra cantine, negozi e vinerie. Conosco diversi produttori, bravi e meno bravi, ovviamente ci parlo volentieri. Merito del vino buono.
Così, ragionando di come vanno le cose oggigiorno, salta fuori che in Trentino è tornata una certa serenità fra i viticoltori. Le liquidazioni per chi conferisce l’uva alla cantina sociale o al commerciante, pur non alte come qualche anno fa e pur con le debite eccezioni, sembrano soddisfacenti. Chi vinifica in proprio, come i vignaioli, è fabbro della sua fortuna. Ho riscontrato un’apparente serenità anche da parte dei trasformatori dell’uva in vino, nella stragrande maggioranza responsabili di cantina sociale, grazie alla prevalenza dei bianchi sui rossi che, invece, sono generalmente più in sofferenza. Ma grazie soprattutto alla straordinaria scarsità di scorte nelle cantine del nord Italia che stanno acquistando nostri prodotti per un interessante rapporto qualità/prezzo. Mi riferisco ovviamente al mercato dei vini sfusi, quelli che si consegnano in autocisterna. Liberare le cantine, quindi, è un imperativo categorico.
Tutto bene, allora? Nemmeno per sogno. Ecco perché.
Andrà anche bene per chi si accontenta, ma questo ragionamento piuttosto diffuso in valle, ci porta indietro di almeno vent’anni, una nemesi storica che si ripropone. Infatti, già Michelangelo Mariani, storiografo del Concilio tridentino scriveva più o meno che “a Trento l’arte di far li vini è quella di lasciarli tal quali nascono” ma che “se presso li Chinesi per quinto elemento si dà il legno, a Trento questo è sicuramente il vino, tanta ne è la copia in uso!” Ed ancora, che “corre il detto: Trento, grano per tre mesi, vino per tre anni”, senza dire degli editti del Principe-Vescovo che punivano con la morte chi s’azzardava ad introdurre “li vini forestieri”… La nostra storia gronda di episodi di questo genere.
Anche nei tempi più recenti del dopoguerra, spesso caratterizzati da sovra produzione, quindi con ruolo crescente delle cooperative ed il ricorso alle distillazioni, il refrain era lo stesso: bravi a produrre, bravi a trasformare, ma il tallone d’Achille era sempre nella commercializzazione. Intendendo per questa l’imbottigliamento e la vendita delle nostre tipologie, raccolte essenzialmente sotto il cappello della DOC Trentino. Ma c’era un progetto territoriale che vedeva i nostri prodotti listati sulle Carte dei Vini nei ristoranti italiani, secondi solo al Collio friulano e spesso davanti all’Alto Adige. I bicchieri del Gambero rosso dovevano ancora nascere. In Germania tutto l’horeca (negozi e gastronomia) sapeva dei vini trentini.
Quando, a metà degli anni ’90 la parola commercializzazione si è malamente tradotta in marketing (cosa ben diversa) c’è stato lo sviluppo delle grandi cooperative e delle loro controllate che, per seguire il mercato, appunto, si sono date alla compravendita. Di tutto e di più, con il Pinot grigio a farla da padrone e le altre nostre varietà al palo. Spalmando utili su tutto. Mentre i viticoltori beneficiavano di questa manna, sparirono per controverso una generazione di piccole aziende familiari e tutti, dico tutti, i commercianti di vino. Rimasero quattro industriali. Poi i primi contraccolpi a questo modello, con l’eco ancora nelle orecchie.
Veniamo al dunque: pur ridimensionato per vari motivi, il Pinot grigio continua a macinare un discreto reddito e l’indicazione ai produttori per il rinnovo dei vigneti continua ad essere una sola: metti giù Pinot grigio! Anche al posto dello Chardonnay. Se non lo ritirano gli oligopoli locali, interessa sfuso, quest’anno, anche ad altri. Bene, anzi, no. E’ impensabile, infatti, una cervellotica campagna pubblicitaria a sostegno del Pinot grigio trentino laddove si decidesse di imbottigliarlo tutto. Questione questa un po’ complessa e da rinviare ad altro post.
E’ di tutta evidenza, pertanto, che accontentarsi delle vendite in autocisterna equivale a scegliere il profilo medio dei produttori di semi-lavorati. Tale è il vino grezzo, non finito, per lo più senza il nome dell’Origine trentina. Perché mai l’acquirente padano dovrebbe spendersi per reclamizzare il nostro territorio? Una strada così si può percorrere per una contingenza, non certo come via maestra di un piano territoriale di medio-lungo periodo. I costi del nostro sistema non lo permetterebbero.
Intendiamoci: qui non si tratta di demonizzare né il Pinot grigio, né le aziende che lo commercializzano dietro le quali stanno migliaia di viticoltori. L’augurio è che il trend positivo continui ancora a lungo e l’auspicio, semmai, è che gli oligopoli separino le attività industriali da quelle territoriali, liberando queste ultime dal blocco virtuale che le caratterizza. Per un rilancio coerente con le nostre peculiarità.
Nel decennio scorso, infatti, tale e tanto è stato l’impegno nel business del Pino grigio & C. soprattutto in nord America, che si sono sacrificati i progetti di sviluppo e di consolidamento delle Denominazioni locali soprattutto in Italia ed in Europa. Anche su questo, servirà un post a parte.
Chi ha resistito a leggere fin qui, si sarà accorto che, fra i vini non ho citato che il Pinot grigio e lo Chardonnay di sfuggita. Niente Muller Thurgau, né Nosiola, né Pinot bianco, né Riesling, né Traminer, né Sauvignon, né Kerner, né Schiava, né Marzemino, né Rebo, né Lagrein, né Teroldego, né Pinot nero, né Merlot, né Cabernet, né Uvaggi, né Vino Santo, niente di niente, come se non ci dovessero essere in un discorso sul mercato del vino.
Effettivamente questi seguono un’altra strada, i quantitativi sono spesso ridotti e comunque sembrano interessare meno. Interessa solo il business e questi, salvo eccezioni, non fanno più notizia. Di certo non incassano i riconoscimenti dei nostri vicini dell’Alto Adige.
Non ci si può rassegnare a questa situazione dopo aver parlato con diversi fra i responsabili della produzione trentina. Non si parli di ragionamento disfattista o lesivo del buon nome della nostra vitienologia. E’ una realtà facilmente verificabile. Una realtà che va analizzata e capita, ma sulla quale è tempo di intervenire a 360°.
Nel prossimo post qualche cifra da far rizzare i capelli.
Pseudonimo utilizzato da uno dei personaggi chiave del vino trentino, depositario di segreti,conoscitore di vizi e virtu dell’enologia regionale e non solo.
Massarello alias Angelo Massarelli, nato a San Severino Marche nel 1510, dopo gli studi in seminario si laureò in leggi canoniche e civili presso l’Università di Siena.
Tornato a San Saverino fu dapprima assegnato alla chiesa di S. Eligio e poi fu eletto priore della collegiata della cittadina.
Grazie alla frequentazione di alcuni letterati conobbe il cardinale Marcello Cervini, futuro papa Marcello II.
Quando il papa Paolo III delegò il cardinale Cervini ad assumere la presidenza del Concilio di Trento, questi volle come segretario del Concilio il Massarelli. Un cardinale così descrive l’operato del Massarelli: «essendo egli lodato dal testimonio incontrastabile dell’esperienza, ed ammaestrato dall’esquisita scuola dell’esercizio, tenne stabilmente il grado di Segretario del Concilio».
Durante gli intervalli delle sedute del Concilio svolse l’importante mansione di Segretario di Stato del pontefice.
Sotto il breve pontificato di papa Marcello II il Massarelli fu suo consigliere.
Dal successore di Marcello II, papa Paolo IV, fu designato vescovo di Telese o Cerreto il 15 dicembre 1557 e fu consacrato a tale ufficio pochi giorni dopo, il 21 dicembre.
Fu autore di un minuzioso diario dei lavori del Concilio dal titolo Acta genuina ss. oecumenici Concilii tridentini.
Terminato il Concilio di Trento nel 1563, il vescovo Angelo Massarelli fu dapprima ministro della Segreteria di Stato e poi Segretario del Supremo Tribunale della Riformazione (successivamente chiamato Sacra Consulta).
A causa dei suoi numerosi impegni venne poche volte in diocesi e si fece rappresentare da un vicario vescovile di sua nomina.