Pubblichiamo questo documento diffuso nei giorni scorsi dal vicepresidente dell’Udias (Unione Diplomati dell’Istituto Agrario di San Michele – FEM), Angelo Rossi. Crediamo che questo sia un buon punto di partenza per cominciare a ragionare, finalmente, in maniera seria sul futuro della viticoltura trentina. Ringraziamo Angelo Rossi che per averci autorizzati a pubblicare il documento.
di Angelo Rossi – Invece di prender in mano la documentazione prodotta negli ultimi tempi sul tema, riparto da un foglio bianco, basandomi sulle convinzioni personali. Talvolta provocatorie per stimolare il dibattito.
Penso che le due paginette-mozione che hanno ben prodotto i biologici non bastino per un tema ben più complesso, per cui ci va qualcosa di più. Per la lettura ci vorrà un buon quarto d’ora di tempo.
La punteggiatura dei capoversi serve per facilitare il riferimento per gli attesi Vostri commenti.
1. Cos’è un progetto? E’ un’architettura con la quale si vuole costruire un qualcosa di nuovo o di rinnovato, non necessariamente stravolgente del preesistente.
Il mondo vitivinicolo trentino ha bisogno di un progetto. Se non si concorda su questo assunto, dovremmo lasciar perdere. A dirci che un progetto per il Trentino serve, sono l’analisi della situazione e l’analisi delle prospettive. (Gli altri capitoli di un progetto sono gli obiettivi, le strategie, le azioni, i controlli e la verifica dei risultati). Sappiamo che l’analisi è il primo capitolo che va affrontato: tanto più completa è l’analisi, tanto più sicuri saremo che il progetto andrà a buon fine. L’analisi è quindi come la diagnosi di un medico; sbagliata quella …
L’analisi non si deve dare per scontata, magari dicendo: sappiamo bene come stanno le cose! Anche se in questa sede – per brevità – non è il caso di richiamare l’analisi generale (situazione internaz. e nazionale), si tornerà di continuo quella particolare che concerne il nostro Trentino.
2. L’attuale generazione degli addetti al settore (voi giovani, attori del progetto) ha avuto a che fare con uno scenario decisamente diverso da quello delle precedenti generazioni. Queste ultime, infatti, operavano storicamente in un sistema “product oriented” dove cioè si produceva un qualcosa e si pretendeva di venderlo al consumatore; la rivoluzione dei mercati degli anni ‘80 che ha preceduto la globalizzazione ha introdotto il “marketing oriented” che obbliga la produzione ad intuire ciò che il mercato desidera e produrre di conseguenza. Il Pinot grigio è un classico esempio.
Il Trentino vinicolo è stato fra i più solerti ad assumere il nuovo orientamento, grazie anche alla vicenda del metanolo che dal 1987 ha resettato i consumi, per cui il “mondo” è partito su nuove basi.
Oggi, a distanza di una generazione, l’analisi ci dice che siamo andati “oltre”, che abbiamo applicato la regola troppo “ottusamente” perdendo di vista valori che la crisi attuale anni ha messo in evidenza.
Non si tratta qui di rinnegare il passato, ma di prendere atto che una correzione di tiro s’impone, badando bene a non buttare il bambino assieme all’acqua sporca. Fuor di metafora: manteniamo e, possibilmente consolidiamo le posizioni acquisite sui mercati della globalizzazione, ma torniamo indietro sulle politiche di territorio. Queste ultime, infatti, nei 10-15 anni scorsi sono state colpevolmente tralasciate, concentrati come si era sul business mondiale. In altri termini, sull’altare del business (Pinot grigio &C.) si è immolato il Trentino vinicolo, prova ne sia che il reale valore delle uve e dei vini oggi è inferiore rispetto al periodo considerato ed ancor di più sono calati i valori fondiari, ossia il “patrimonio” accumulato da generazioni di operatori. Questo ci deve far pensare.
Ripartire, quindi, con un progetto territoriale che sappia dare risposte alle attese non solo di viticoltori e cantinieri, ma anche dei consumatori. Costoro, infatti, sono i più perplessi rispetto alla scarsa performance delle nostre produzioni enologiche, con tutte le eccezioni del caso, s’intende. Come deve essere chiaro che sotto la voce consumatori vanno ricompresi, in primis, gli operatori turistici con l’indotto e, più in generale, tutta la comunità delle persone che vivono l’ambiente ed ambiscono ad un miglioramento della qualità della vita.
3. Per impostare un progetto territoriale “trentino” bisogna aver presente il quadro socio-economico intendendo con questo tutte le positività (molte) che il nostro sistema ha costruito, ma anche le diverse criticità, che vanno superate.
Siamo fortunati ad avere una rete di cooperatori che, almeno potenzialmente, ci avvantaggia di molto nel trasferimento degli input alla base. Il coinvolgimento della cosiddetta base è un punto cardine della proposta strategica. Opposta, va da sé, a quella imperante che prevede di non parlare al conducente, ossia ai vertici della cooperativa (sembra una contraddizione in termini, ma è così) al fine di massimizzare il reddito a discapito, però, di quella che mi piace definire “l’anima del vino”.
Concetto astruso, questo, ma strategicamente fondamentale per un territorio che si trova a combattere con i limiti climatico-ambientali che conosciamo. Per consolarci, ricordo che le migliori produzioni in vitivinicoltura (ma non solo) si ottengono proprio dalle situazioni di obiettiva difficoltà ambientale.
4. Detto questo propongo alla riflessione dei colleghi di concentrarsi sul blocco potenzialmente risolutore del problema, rappresentato dalle migliaia di viticoltori e loro cooperative. I Vignaioli e i Commercianti-Industriali sono praticamente già orientati nel senso che verrà proposto.
Soffermiamoci quindi sulle Cantine di primo grado, senza sottendere il ruolo importante del Consorzio di secondo grado (Cavit) che dovrebbe convenire su questa opportunità e muoversi di conseguenza.
La Cantine, chiamiamole così d’ora in avanti, sono sul territorio ed hanno (in qualche caso avevano) un eccellente rapporto con il territorio per il tramite dei rispettivi associati ed anche direttamente con i propri collaboratori. Esse sono, pertanto, in grado di esaminare, capire, condividere ed attuare la “nuova” politica che si propone.
Non si tratta, come detto, di innovare nel senso pieno del termine, ma di riprendere una strada già percorsa anni fa, attualizzandola sulla base delle nuove conoscenze ed in funzione degli spazi che si prevede di occupare in futuro.
5. Il modello, richiamato anche da recenti proposte, poggia su un ambiente pedo-climatico-ambientale che nei secoli ha indicato all’uomo i siti migliori per allocarvi – diciamo – una ventina/trentina di diverse varietà di vite. Oggi abbiamo sistemi anche tecnico-scientifici che ci indicano i siti più adatti, per cui si avrà conferma sostanziale delle esperienze pregresse. Ciò che è importante è convenire che questo territorio non deve essere esclusivizzato ad un paio di tipologie solo perché è questo che vuole il mercato (globale).
6. Passo indietro: Il Trentino vinicolo rappresenta ca. l’1,2 % del vino italiano, eppure sul territorio operano oltre un centinaio di aziende, alcune delle quali fra le più grandi d’Italia. Ciò significa che le più grosse fanno politica di brand, mentre per le altre sussiste un problema oggettivo legato alle dimensioni per cui si impone una politica di territorio. Considerando che metà della produzione – a regime – si consuma sul territorio, la preoccupazione riguarda ca. mezzo milione di ettolitri da suddividere non già su poche tipologie, ma su una tavolozza varietale più ampia, di relativamente facile collocazione su un mercato a prezzi remunerativi. Il mercato cui si dovrebbe fare riferimento ha un raggio di ca. 300 km, da Monaco di Baviera a Firenze. Ciò non significa che fuori da quest’area non si debba/possa operare, significa solo che questo è il focus su cui puntare. Ogni azienda, grande o piccola che sia, poggerà in definitiva le sue basi dove meglio crede, ma lo sforzo collettivo (ed istituzionale) dovrà essere dimensionato all’area indicata. Un’area, manco a dirlo, interessante anche per il mondo del turismo che ha il suo più importante bacino d’utenza proprio lì, considerando soprattutto la fondamentale esigenza turistica della de-stagionalizzazione; sappiamo, infatti, che poche ore di auto permettono ai bavaresi o ai padani di raggiungere la ns. regione, potenzialmente in tutti i fine settimana. Con un effetto di fidelizzazione possibile anche per il mondo del vino. Ed anche una garanzia maggiore di solvibilità delle fatture (per coerenza soprattutto col business).
7. Torniamo alle tipologie ed al mercato dei 300 km.
Negli ultimi 10 anni, venuta meno sia l’azione di indirizzo del Consorzio di Tutela Vini, sia dell’Assessorato all’Agricoltura (sul tema si potrebbe aprire un dibattito a parte, allargando il discorso sul ruolo possibile della FEM), l’indirizzo unico che si è seguito è quello del mercato globale che, tradotto dagli oligopoli, si è concretizzato nel Pinot grigio (lo Chardonnay in quantità c’era già negli anni ‘90). Orbene: se il futuro del nostro Trentino dovesse chiamarsi Pinot grigio questo nostro impegno sarebbe inutile e tutti ci dovremmo unire in preghiera affinché continui la performance del mercato nordamericano &C., che il dollaro conservi un cambio con l’euro ancora interessante, che in America ed in giro per il mondo smettano di piantare Pinot grigio, che dal Veneto continuino a fornire di Pinot grigio i nostri oligopoli invece di incrementare le vendite direttamente, ecc. ecc.
8. Invece il Trentino prossimo venturo che dovremmo immaginarci non è solo così, ma anche altro.
Non quindi un territorio giocato essenzialmente fra Pinot grigio, Chardonnay e Muller Thurgau, ma qualcosa di più completo.
Le tipologie varietali sono in parte autoctone ed in parte internazionali; sappiamo che non converrà mai enfatizzare più di tanto l’una o l’altra varietà, per il semplice motivo che non esiste al mondo la possibilità di tutelare il nome di un vitigno. La storia pregressa ci ha insegnato a coniugare la tradizione delle molte varietà (patrimonio non comune) ponendole sotto un unico cappello, il cognome TRENTINO. Poi TRENTO per lo spumante classico e le altre denominazioni che pure si dovranno toccare nel prosieguo del discorso.
9. Il dibattito qui, si pone subito per la scelta fatta da molti, di adottare “Vigneti delle Dolomiti” sia per l’appeal migliore, sia come fuga da una denominazione in qualche modo “inquinata“. Tutto vero, ma ci vuole coerenza (anche col turismo) e realismo (è ancora un po’ lontana una possibile politica promozional-regionale). Se “Trentino” non va bene, bisogna rimuovere le situazioni che ne hanno provocato il suo decadimento d’immagine e notorietà. Questo è un pilastro da ritenere fisso: Trentino come divinità pagana da seguire, da difendere ed a cui appellarsi nei momenti di difficoltà.
Trentino come cappello per le migliori tipologie varietali, esteso con opportune tutele rotaliane, anche a sua maestà il Teroldego. Non è più sostenibile, infatti, che una delle più nobili e versatili varietà autoctone si smarchi dalle altre pretendendo di giocare da sola ed imponendo indirettamente una sorta di blocco alla coltivazione fuori zona storica; meglio sarebbe monitorare le eventuali zone idonee e circoscriverne colà la coltivazione.
10. Se si pretende di riportare il Trentino come cappello delle indicazioni varietali, sarà giocoforza intervenire sul disciplinare di produzione e di conseguenza si apre il dibattito dei dibattiti, ossia sul ruolo della Cantine di primo grado nello sviluppo della vitienologia trentina. Senza dibattito il discorso finisce qui, con tanti saluti al progetto territoriale. Senza Cantine Sociali il Trentino non decolla, come non decolla senza Vignaioli. Né sono possibili progetti sub-territoriali o di distretto senza che a monte ci sia prima un’intesa globale, condivisa e convinta.
Chi ama questo territorio, per un motivo o per l’altro, troverà le opportunità per unirsi in un afflato comune con gli operatori dell’altra parte; l’alternativa è di proseguire con piccoli progetti, spesso positivi, ma che non affrontano né risolvono la questione alla radice; è il caso dei Dolomitici, dei giovani spumantisti del Trentodoc, dei gruppi che si muovono in Valle dei Laghi o altrove …
11. Per stimolare le Cantine bisogna ripristinare quel tavolo attorno al quale, fino agli anni ‘80, si ritrovavano i direttori dei primi gradi: avevano sì da discutere del quanto e del come conferire alla Cavit, ma parlavano anche di mercato e di politica vitivinicola in generale, cosicché sul tavolo dell’interprofessione (Comitato vitivinicolo) non giungevano solo le voci degli oligopoli, dei Commercianti-Industriali e dei Vignaioli, ma anche le loro. Rappresentavano e rappresentano pur sempre la maggioranza dell’intero sistema.
In un’epoca dove i tavoli si sprecano, questo è uno di quelli che nessuno pare avere interesse ad aprire perché per i direttori è troppo comodo conferire il più possibile a Cavit (o Mezzacorona che ritira tutto dai suoi centri di raccolta) riservandosi di commercializzare lo sfuso residuo e magari nascondendosi dietro il divieto Cavit per non incentivare la propria quota di imbottigliato.
12. Per i direttori si tratta di elaborare un progetto che riguardi tutto il Trentino articolato sulle varie zone di competenza, ma con riguardo anche alle moderne esigenze trans-cooperative. Queste ultime sono quelle che interessano gli altri attori sul territorio, i Vignaioli e gli altri privati (turismo compreso) che hanno scelto di stare ed operare sul e per il territorio stesso.
Sarebbe interessante che da Udias arrivasse lo stimolo ai colleghi direttori affinché tale impostazione potesse essere presa in considerazione.
13. Il discorso a questo punto porterebbe subito al luogo naturalmente deputato per questo genere di problemi, ossia al Consorzio Vini. Sappiamo che questo, per legge, ora si deve interessare oltre che di tutela anche di valorizzazione (pubbli-promozione). Nei 12 anni da quando esiste, non ha purtroppo sviluppato nemmeno un piccolo piano territoriale, lasciando spadroneggiare gli oligopoli nella convinzione che bastasse la remunerazione delle uve, ma abbiamo visto che non è, né può essere così in eterno. Né pare ci sia voglia di accelerare per dare organicità alla valorizzazione e lo si capisce: ogni valorizzazione non starebbe in piedi senza un completo quadro di riferimento territoriale.
14. Solo per stimolare, ma evitando lungaggini, un pensiero sulla ipotesi spumantistica che tanto interessa e che ha un ruolo fondamentale per il futuro: a monte, per la grande disponibilità di Chardonnay cui va data una destinazione meno effimera di quella presente, ed a valle per la notevole potenzialità che la spumantistica classica e non, riserva.
In poche parole, non tutti i 300mila quintali di Chardonnay sono potenzialmente idonei al classico, né il mercato oggi è pronto per recepire una quantità simile di classico. Bisogna per forza disaggregare per assicurare una redditività alla filiera.
L’idea è di spingere in alto la Qualità media del classico, magari ricorrendo alla “modalità” DOCG (senza necessariamente abbracciarne la burocrazia) con adeguato ritocco dei prezzi e conferma della denominazione TRENTO (con buona pace del Trentodoc) e contemporaneamente creando una soglia sottostante (con altra denominazione/brand) di un prodotto metodo Cavazzani (autoctono!) elaborato d’intesa fra le industrie che dispongono della tecnologia (Cavit, Cesarini Sforza, Concilio, ecc.). Questo prodotto potrebbe inserirsi qualitativamente sopra la soglia media del Prosecco ed in una fascia di prezzo intermedia fra quest’ultimo ed il TRENTO. Va da sé che un prodotto nuovo e industriale puro dovrà beneficiare di un’azione di lancio e consolidamento sostenuta anche da fondi pubblici. Di più non vorrei aggiungere, perché conviene approfondire bene, prima di fare passi falsi.
15. CONCLUSIONI. Ringraziando quanti hanno avuto l’amabilità di giungere fino a questo punto con la lettura ed ancor più per le opinioni che spero vengano numerose, conviene ricapitolare la lista delle priorità.
A. Convenire sull’opportunità di continuare il dibattito perché un Piano-programma per l’immediato e per il medio-lungo periodo si impone senza indugi ulteriori, crisi o non crisi.
B. Poiché è di tutta evidenza che chi di dovere (Consorzio Vini) continua ad essere bloccato sia per propria incapacità progettuale, sia per mancanza di vera e paritetica interprofessionalità si deve tentare un’altra strada.
C. L’altra strada potrebbe essere quella di partire dal basso, dal territorio, e per esso dai rappresentanti tecnici (nostri colleghi) che dirigono le Cantine, ri-attivando l’operatività del Consorzio Cantine Sociali (cosa diversa da Cavit-unità operativa, ma non progettuale del territorio) al fine di pensare ad un programma-progetto territoriale. So che qualcosa si sta facendo, ma l’alone di riservatezza che accompagna questo lavoro, male si concilia con la trasparenza necessaria per una condivisione, anche dei soggetti extra cooperativi senza i quali l’unitarietà del settore (tanto reclamata ed auspicata) non si realizzerà mai.
D. Un modo per favorire quanto sopra sarebbe la separazione netta delle attività industriali di Cavit da quelle territoriali (lasciandole appunto al Consorzio Cantine); fin qui c’è stato un irrigidimento di Cavit perché spesso tale proposta è stata accompagnata con il consiglio di trasformare Cavit in SpA. Cavit questo non lo vuole (e per me fa bene), vuole restare nell’ambito cooperativo. E questo è possibile ed anche coerente con l’idea fondante del sistema coop. Dove non c’è coerenza è nel pretendere che il primo grado si appiattisca sul secondo, rinunciando ai propri diritti e soprattutto ai propri doveri nei confronti del territorio. Immagino la contestazione: Cavit si è sempre preoccupata del territorio! Dico che bisogna rivedere la filiera delle rappresentanze dei 7.500 viticoltori associati e qui il discorso ci porta direttamente ai vertici della Federazione coop. in rinnovo, ma divisi proprio fra “dominio” dei secondi gradi su tutto il movimento o ritorno ai valori fondanti ancora ben presenti in periferia, ancorché talvolta assopiti.
E. Da ultimo e in parallelo, si potrebbe attivare un tavolo di discussione sul progetto TRENTO e sul mondo spumantistico che può/deve marciare autonomo. PUO’ perché non deve necessariamente aspettare che il mondo coop. si scuota ed assuma le sue responsabilità per il progetto territoriale; DEVE perché la spumantistica, essendo attività “industriale” che sfrutta il territorio non portandone la responsabilità, deve, dicevo, sfruttare l’occasione di avere a monte la disponibilità di materia prima (Chardonnay) ed a valle un mercato (soprattutto interno) in grado di assorbire qualche ulteriore decina di milioni di bottiglie, per fare il suo business.
F. Solo per memoria: ragionando di “industria” aggiungerei il mondo delle GRAPPE TRENTINE nella progettualità complessiva, per chiudere il cerchio. Polenta e luganeghe ed altri prodotti tipici verranno di conseguenza.
PS: dimenticavo un passaggio culturale importante: Tutta la nuova progettualità si deve basare sulla condivisione dei costi al 50% a carico dei produttori. Trentino Marketing e la Camera di Commercio che continuano a dire di fare azione di “supplenza” per l’inazione dei vinicoli, fanno molta fatica a mollare l’osso, dotati come sono sia di personale che dei fondi per fare quello che fanno. Questo è un altro bel capitolo da dibattere.
Grazie per l’attenzione.
Angelo Rossi, 31 maggio 2012
È lo pseudonimo collettivo con cui fin dall’inizio sono stati firmati la maggior parte dei post più trucidi e succulenti di Territoriocheresiste. Il nome è un omaggio al protagonista del Barone rampante, il grande capolavoro di Italo Calvino. Cosimo Piovasco, passa tutta la sua vita su un albero per ribellione contro il padre. Da lì, però, guadagna la giusta distanza per osservare e capire la vita e il mondo che scorrono sotto di lui.