di Angelo Rossi – L’avevo visto in qualche biblioteca e quando lo notai sul banco di un rigattiere non me lo sono fatto sfuggire IL TRENTINO di Cesare Battisti e non l’ho nemmeno pagato troppo rispetto alle 3 Lire di copertina nel 1915! Ne vale molte, molte di più.
Geografo e cartografo, Battisti amava la sua terra dal di dentro, parte del suo intimo, con un’intensità che traspare evidente anche nell’asettica elencazione dei dati raccolti e riportati.
Mi piace, nell’anniversario del suo sacrificio per noi, riportare qui un paio di brani che riguardano gli aspetti vitivinicoli del Trentino di allora (1910), con i suoi 6.346 kmq, 367 Comuni, 67.762 Case e 386.437 abitanti. Anche nel 1902 la proprietà fondiaria era polverizzata e su 70.390 aziende censite, 1870 erano quelle dedicate alla coltura intensiva della vite.
PRODUZIONE VITICOLA (Confr. Tav. X). La vite si eleva in media nel Trentino fino a 700 m; occupa in realtà un’estensione maggiore di quella indicata nel nostro quadro statistico, dovendosi aggiungere ai 70 kmq dedicati ai vigneti veri e propri, quasi altrettanto suolo in cui la vite è coltivata a filari nei campi, frammista ad altre colture.
Produzione annua viticola: 942.000 ettolitri (media 1907-1910). Le qualità d’uva più in uso nel Trentino sono, fra le nere: la teroldica (a Mezzolombardo, Lavis e San Michele), la negrara, la marzemina sul Roveretano e nella Valsugana, la pavana nella Valsugana, il groppello in Val di Non. Fra le bianche si coltivano a preferenza la nosiola (circondario di Lavis e Valle del Sarca), la vernaccia, la trebbiana (Val del Sarca, per la confezione del Natalino) e il Riesling italico.
La vite è stata nel Trentino artificialmente estesa, oltre il limite necessario e sicuramente redditivo; le stesse autorità agrarie governative ne consigliano da qualche anno la riduzione.
Sulle ragioni di ciò vedasi quanto diciamo a proposito dell’industria vinicola.
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INDUSTRIA ENOLOGICA: produzione 660.000 ettolitri (media 1907-1910). Centri maggiori di produzione e di commercio sono per i vini da tavola: Mezzolombardo, Lavis, Trento, Calliano, Isera; per i vini da bottiglia: San Michele, Maderno, San Donato presso Trento, Calliano, Isera, Villa, Rovereto e Castel Toblino. La produzione trentina trovò facile e remunerativo smercio fino al 1892, anno in cui venne facilitato l’ingresso sul mercato austriaco dei vini del Regno; l’industria si avvantaggiò poi dalla mancata produzione ungherese, nel periodo in cui i vigneti ungheresi furono devastati dalla fillossera e in cui era scarsa la produzione austriaca. Oggi, venute a mancare queste circostanze e per un complesso d’altre ragioni, la produzione vinicola trentina è compensata con reddito molto scarso, non sempre remunerativo. Per questo non sono più sorti nuovi stabilimenti e parecchi fra i maggiori esistenti sono in condizioni sfavorevoli; e va diffondendosi il criterio che alla coltura della vite (ove non trattasi di vini scelti, e ben noti sul mercato) possano e debbano surrogarsi colture più redditive.
È lo pseudonimo collettivo con cui fin dall’inizio sono stati firmati la maggior parte dei post più trucidi e succulenti di Territoriocheresiste. Il nome è un omaggio al protagonista del Barone rampante, il grande capolavoro di Italo Calvino. Cosimo Piovasco, passa tutta la sua vita su un albero per ribellione contro il padre. Da lì, però, guadagna la giusta distanza per osservare e capire la vita e il mondo che scorrono sotto di lui.
Caro Conte, che io sappia e senza nulla togliere al fondamentale ruolo che ebbe ed ha l’Istituto Agrario di San Michele per lo sviluppo della vitienologia non solo locale, l’introduzione dei vitigni di Borgogna in Trentino (Pinot bianco, P. grigio, P. nero e Chardonnay) è merito di Giulio Ferrari, grande vivaista prima ancora che esimio spumantista, fin dagli albori del 1900. Si trattava allora di rinnovare i vigneti distrutti dalla fillossera con varietà più nobili. Per il Müller Thurgau, invece, questo merito va a suo cognato, il dr. Scipio de Schulthaus (1939). Lo Chardonnay (o Pinot giallo come lo chiamavano i viticoltori per differenziarlo dal Pinot bianco, detto per questo P.verde) pur coltivato da decenni, soffrì di “ostracismo ministeriale” perché il nome era troppo … francese, per cui si dovette attendere che San Michele facesse un impianto “in purezza” con barbatelle direttamente importate dalla Francia (1963) da cui si sviluppò poi rapidamente in ogni dove, ma si dovette pazientare ancora fino al 1978 per la sua iscrizione nel Catalogo nazionale delle varietà, fino al 1980 per vederselo autorizzato alla coltivazione da parte della Comunità Europea e fino al 1984 per poterlo così designare in etichetta come Trentino DOC Chardonnay. Il Comitato Vitivinicolo a quei tempi tentò in tutti i modi di assicurare al Trentino quello che si capiva bene essere un vantaggio anche commerciale, ma la sua regolarizzazione arrivò solo dopo che le regioni vicine poterono anch’esse dimostrare di averne diritto con i loro nuovi impianti.
Attualmente è la varietà più diffusa in Trentino, ma è anche quella che più preoccupa per mancanza di una progettualità territoriale a tutto tondo (dai vini fermi agli spumanti). Condizione diversa, ma sempre sfavorevole come 100 e più anni fa.
Davvero interessante questo richiamo storico, complimeti.
Ugo
Grazie Ugo!