Ringrazio Claudio che con il suo post scriptum all’intervento precedente, mi spinge a tornare sull’argomento pinotlandia. La fotografia del famigerato cartello affisso alle porte di Roverè della Luna a cura della Strada del Vino e dei Sapori della Piana Rotaliana e della defunta Trentino Marketing, la ho trovata ieri sera sfogliando facebook al bar, fra un bicchiere e l’altro di TRENTODOC (una bottiglia a mio parere piuttosto modesta: 600 UNO – Concilio Vini. Ma questo a volte passa il convento). Quando la ho vista, la foto non la bottiglia, ho messo subito in ordine alcuni pensieri da infilare in un eventuale post. Poi, stanotte, ho pensato che forse, in fin dei conti, tutti i miei pensieri sarebbero risultati ridondanti, rispetto alla forza espressiva di quella foto accompagnata dal titolo Strada California. Ma siccome le dita mi scivolano con facilità sulla tastiera, rieccoli qui i miei pensieri di ieri sera, così come me li ero appuntati in testa.

strada-del-vino-rotalianaZONA DEL PINOT GRIGIO – STRADA DEL VINO E DEI SAPORI DELLA PIANA ROTALIANA  – TRENTINO. Leggendo questo cartello mi viene in mente una di quelle leggende digitali che ancora circolano in rete. Le profezie, anzi le bufalebugie, che si autoavverano e si auoverificano. E non c’è niente da fare: provare a smontarle è tempo perduto.  Non ci riesci. Dunque, c’è una poesia, si intitola Lentamente muore, scritta anni fa da una brava giornalista, e poetessa, gaùcha, Martha Medeiros. Lo scritto è carino, ma insomma non siamo alle vette della letteratura mondiale. Eppure per qualche ragione, in rete, questa poesia è stata attribuita a Pablo Neruda. Ci cascò perfino un colto e raffinato parlamentare italiano che la citò, attribuendola al Nobel, in un suo memorabile intervento in aula. Da dove abbia avuto inizio questa bufala letteraria è difficile dirlo. Ma ancora oggi, nonostante le numerose precisazioni degli editori che in giro per il mondo curano l’opera omnia dello scrittore cileno, la rete continua ad attribuire questa poesia a Neruda. Digitare su google la chiave di ricerca lentamente muore, per credere. La bufala ormai si è autoavverata. E non c’è niente da fare. Nessuno più riesce a smontarla.

Torniamo a Pinotlandia. Leggo il post pubblicato nei giorni scorsi dall’amico Primo Oratore, sull’ottimo Osservatorio del Vino. Il blogger racconta con mitezza e stile la sua recente visita alla Cantina Sociale di Roveré della Luna. E riassume le parole degli amministratori e dei tecnici dell’azienda. Ad un certo punto esce fuori il discorso del Pinot Grigio. Da quelle parti, si intuisce, sono tutti d’accordo nel considerarlo se non un autoctono, almeno un descrittore forte del territorio. “Il vino veramente autoctono è … il pinot grigio. In cantina – trascrivo letteralmente dall’Osservatorio – il direttore Gallo ha trovato vecchie carte dei mitici anni 60 che riportano il conferimento di pinot grigio in quantità in cantina”. La bufalabugia, dunque, si è autoavverata: nel sentire comune, nella percezione vissuta e agita, il Pinot Grigio (vitigno internazionale che più internazionale di così si muore) è diventato elemento identificativo, non solo economico, ma anche sociale e storico di un territorio, tanto da indurre qualcuno addirittura a cimentarsi in improbabili ricerche storiografiche. Dunque, a differenza della poesia erroneamente attribuita a Neruda, qui è facile immaginare da dove sia nata questa leggenda roveraiter-cooperativa-rotaliana. Dalla strategia commerciale – e poi  produttiva – a cui si è ciecamente affidato il management deterritorializzato e deterritorializzante che guida, e ha guidato, le  centrali industrialistiche del vino trentino; a cui si sono inchinate (inginocchiate e messe a novanta gradi) anche le istituzioni (Strada del Vino e Provincia, questi i due marchi che compaiono sul cartello). Si è autoavverata a tal punto, questa bufalabugia devastante – devastante perché cancella la memoria e fa piazza pulita del profilo antropologico di un territorio – da essere vissuta come una verità dogmatica. Come un’icona concettuale indiscutibile a cui affidare la rappresentazione sintetica di un territorio. Uno dei tanti, e nemmeno il più significativo, fra le migliaia di territori che nel mondo affidano le proprie fortune economiche al Pinot Grigio, dalla Val d’Adige veronese alla California.   La manipolazione culturale e sociologica si è autoavverata e si è simbolicamente iconizzata in quella scritta: Zona del Pinot Grigio. Ricerche storiche comprese.

Insegnava Marc Augè, antropologo francese di un certo valore e di una certa autorevolezza, che la distinzione fra un Luogo e un Non Luogo, da un punto di vista antropologico, passa attraverso la verifica di alcune categorie interpretative: quelle di identità, di storicità e di relazionalità. Non mi pare che il PinotGrigio-McDonald’s, potentissima macchina che produce denaro  e che annichilisce storia (perché la storia non principia nei mitici anni Sessanta del secolo scorso), identità territoriale e relazionalità consapevole, riesca ad integrare significativamente nemmeno una di queste categorie. Consiglierei, quindi, di cambiare la scritta che appare alle porte di Roverè della Luna e di sostituirla con questa: Non Luogo del Pinot Grigio. Potrebbe essere addirittura turisticamente più attraente, non fosse altro perché desterebbe qualche curiosità, di quella attuale.

 

Ps: credo sia abbastanza chiaro che tutto questo pistolotto non ha niente a che vedere né con le mie preferenze in fatto di bottiglie – talvolta bevo con piacere anche qualche Pinot Grigio – né con con una mia presunta ostilità nei confronti del vitello d’oro del denaro. A cui anzi mi dedico con una certa appassionata efficacia. Il discorso, mi auguro si sia capito, è un altro. Ma proprio un altro.

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