di Paola Attanasio – Prendetemi pure per colei che tinge Trentino Wine di Salento. Sono “la regina del Salento”…non ci posso fare niente! Non riesco ad esprimere nulla, senza portarmi appresso ioniche contaminazioni. (Ammetto, però, che comincia a sfiorarmi il pensiero, che questo sia un mio grande limite…).
Quando leggo un racconto o guardo una foto in cui ritrovo la mia terra, sento il sangue alla testa, mi riempio d’orgoglio e subito penso di condividerla con i lettori di questo blog; dopotutto anche qui mi sento a casa mia…
Ieri il mio amico Giuseppe de Santis mi ha onorata della condivisione di un suo racconto autobiografico ambientato a Tuglie (piccolo paese alle porte di Gallipoli). Il racconto descrive un tipico momento di vita contadina, vissuto da un bambino, che ritaglia i suoi momenti di gioco e di vita fantasiosa in un mondo fatto di grandi che lavorano. Il racconto si riferisce al momento in cui un padre (affamato) ritorna dal lavoro in campagna e in cui una madre deve velocemente apportare gli ultimi ritocchi al pranzo.
Senza nemmeno rendermene conto mi sono sentita rapita da volti, pelli stanche e scavate dalla fatica, dal sudore agricolo, dai movimenti veloci e sapienti tra fornelli, pentole, mestoli e aromi indimenticabili di una cucina antica, dall’afa, dal calore insopportabile di un’estate rotta dai cubetti di ghiaccio (jacciu), dal giallo oro, dal verde brillante, dal rosso bollente…e ho pensato: questa è casa mia!

 

 L’ESTATE DELLA MIA INFANZIA – di Giuseppe de Santis

Quando avevo dieci anni neppure immaginavo che una famiglia potesse possedere un frigorifero. Se lo avessi immaginato d’altra parte, avrei ricondotto la sua utilità alla sola produzione del ghiaccio nelle infuocate stagioni estive quando l’acqua della fontana pubblica, stoccata in recipienti di latta o di terracotta, raggiungeva temperature proibitive.
Il frigorifero era fuori dalla portata delle famiglie contadine del mio paese e poi a cosa poteva servire un aggeggio pensato per conservare il cibo?
Si consumava quello che la terra produceva. Pranzo e cena variavano solo per le modalità con le quali venivano preparate sempre le stesse cose. Non c’era niente da mettere nell’ipotetico oggetto che nei decenni successivi avrebbe anche globalizzato i gusti e fatto dimenticare la sequenza con la quale le stagioni regalano frutti maturi e genuini.
D’estate ortaggi e verdure, prodotti a decametri zero, erano gli unici alimenti. Era il modo di prepararli che dava spessore all’arte culinaria e faceva imbizzarrire l’appetito.
Zucche e patate, ad esempio potevano essere primo, secondo e contorno prelibato. A che diavolo poteva servire mai un frigorifero se non per produrre il ghiaccio?
La mia casa era stata appena costruita nella periferia del paese e, appena fuori dall’uscio della porta, scorgevo la campagna con la quale si viveva in simbiosi stretta.
Se l’annata decideva di essere generosa si viveva l’euforia dell’abbondanza; diversamente se ne prendeva atto razionalizzando ulteriormente le risorse a disposizione.
La strada lungo la quale sorgeva la mia casa, come la maggior parte delle strade del paese, era “naturalmente” sterrata e il silenzio che normalmente avvolgeva le giornate estive veniva esaltato da una calura ottundente. Il contesto sconsigliava agli umani di cedere alla tentazione di curiosare fuori quando il sole sembrava ostinato a non muoversi dallo zenit.
Di tanto in tanto il fruscio di una lucertola vagabonda lacerava il silenzio rovente e mi pentivo di non avere sottomano il mio laccio d’erba col nodo scorsoio in cima, per catturare un altro esemplare e aggiungerlo alla mia collezione segreta.
Il rumore dell’olio bollente al contatto con i fiori di zucca in pastella, era quasi contestuale al profumo della frittura percepito dal mio olfatto infallibile. Ciò bastava per invertire l’ordine delle priorità e da contemplatore del mio piccolo universo mi trasformavo in schiavo del languore dello stomaco nel quale i succhi gastrici organizzavano la loro puntuale rivolta quotidiana.
Mia madre si ostinava a non farmi assaggiare nulla prima del pranzo ma io ero un po’ come sono i gatti che proprio a certe regole non sanno conformarsi. Sgusciavo, studiavo i movimenti, a volte creavo le condizioni per una provvidenziale distrazione e allungavo fulmineo la mano sulla prelibatezza.
L’attimo dopo godevo del raggiunto compromesso con il mio irresistibile bisogno di anticipare il pranzo anche se solo di qualche minuto.
Nel corso della preparazione del pranzo registravo i lamentosi sbuffi di mia madre che a modo suo reagiva al caldo.
Mio padre, reduce di una giornata di lavoro iniziata molto prima dell’alba, restava semiappisolato seduto sul suo scalino personale con gli occhi chiusi, la testa sorretta dalle mani e i gomiti inchiodati sulle ginocchia. Il sudore colava dalla sua fronte e rigava le sue gote scavate.
Era giovane mio padre ma la sua pelle era segnata dal sole che giorno dopo giorno creava solchi prematuri destinati a restare permanenti.
Quando qualche timida folata d’aria s’insinuava interrompendo la vampa persistente, per l’istante della sua durata, mia madre a modo suo la salutava invocando ad alta voce il suo misterioso Eolo: luca, luca, luca!!! Poi si rivolgeva a me che cercavo di trovare in tempo qualche scusa persuasiva per scampare alla missione nella quale mi sentivo già fatalmente catapultato senza scampo.
“Va ccatta un picca te jacciu…sbricate ca è prontu”!
Borbottavo lamentandomi del perché fossi sempre io la vittima predestinata e chiedevo la ragione per la quale non si rivolgesse mai a mia sorella pur conoscendo a priori la risposta che all’epoca non mi sembrava affatto ragionevole: “perché ha solo sei anni”.
Rubavo un altro fiore di zucca prima di infilare le ciabatte di plastica e avviarmi verso la ghiacciaia a meno di un chilometro da casa mia.
L’andata era lenta perché ero distratto da ogni cosa. A ogni passo una scoperta nuova, ogni strada era un altro universo ma il sole era sempre lo stesso inchiodato dispettosamente appena al di sopra alla mia testa.
Con il pezzo di ghiaccio in mano avvolto nella iuta mi sentivo un po’ più responsabilizzato e acceleravo il passo per non banalizzare lo sforzo dell’impresa appena compiuta e tornare a casa con uno straccio bagnato.
Scostavo la iuta per mordicchiare il ghiaccio e passarmelo sulla faccia ma senza però indugiare più di tanto.
Mio padre scalpellava solo il pezzo necessario di quel refrigerio e riavvolgeva il resto ancora nella iuta per conservarlo fino al pomeriggio.
Il ghiaccio nella brocca di cristallo era una scultura che cambiava forma e il prodotto della metamorfosi era l’acqua fredda che ci rendeva euforici e convinti più che mai che fosse quello l’unico sistema per tenere a bada l’afa soffocante.
Dopo il pranzo arrivava l’ora odiata della siesta per me semprecoatta. Non sono mai riuscito a chiudere un occhio nell’ora della siesta e ogni movimento sul saccone riempito di paglia o foglie di mais (sbroie) che si usava d’estate per fare la siesta, era un concerto che disturbava anche il sonno di mio padre.
Ottenevo allora il permesso di spostarmi nell’altra stanza dove, con la complicità della luce che filtrava dalla porta, leggevo le strisce di Blek Macigno. La stanza diventava d’omprovvisp l’Ontario dove pescavo trote con Roddy sotto lo sguardo saccente del professor Occultis.
Combattevo con i trapper il colonialismo inglese delle giubbe rosse e diventavo il braccio destro del coraggioso Blek che sembrava terrorizzato solo dalle donne. Questo terrore però io non l’ho mai capito.