Anche questa mattina, come faccio sempre ogni lunedì, ho dato una rapida scorsa alla prima pagina del blog e ho controllato il numero dei commenti. I post più interagiti risultano essere sempre quelli, chiamiamoli così, di rottura. Le analisi critiche e la polemica vincono sempre. Le divisioni, almeno su questo blog geneticamente partigiano, eccitano i nostri lettori. Incomparabilmente di più delle buone notizie. Che a questo punto, forse, non vale nemmeno più la pena chiamare notizie.
L’altra sera in un’enoteca veronese, insieme ad una vecchia amica, mi è scappato l’occhio su una bottiglia di Pinot Nero – Trentino Doc. Non faccio il nome, per non nuovere al piccolo al produttore. Ne avevo sentito parlare bene, anzi benissimo, la scorsa estate. Dietro c’è la storia di un giovane trentino, che pur provenendo da una famiglia alto borghese, si innamora della terra e acquista un podere. Comincia a fare Pinot Nero: bottiglie importanti, packaging raffinato, etichetta artistica. Prezzo in cantina fra i 20 e i 22 euro. Prezzo al consumatore finale, l’altra sera in enoteca, euro 50. Io e la mia amica decidiamo di spenderli questi benedetti 50 euro. Arriva il vino. L’enotecaro, competentissimo, racconta la storia e l’epica di questo vino e di chi lo produce. Sale l’attesa. All’inverosimile. Penso: finalmente una Doc Trentino all’altezza. Poi, arriva la delusione: appena aperto, è un 2008, è ancora molto chiuso, più che strutturato sembra destrutturato. Decidiamo di aspettare e intanto ce la raccontiamo. Dopo un ora di attesa, le cose cambiano. Ma solo un po’. Un vino con una struttura debolissima, profumi molto evanescenti. Un vago sentore di liquirizia alla fine, ma i frutti di bosco dove sono? Comunque è corto. Se ne va via subito e complessivamente lo trovo “spettinato”. La delusione cresce. Mi dico: forse sono io che non capisco una beatissima minchia. E ho bisogno di studiare e studiare e studiare ancora (come del resto mi suggeriva ieri sera una commentatrice). Resta però, sullo sfondo, una domanda? Quale è il movente che spinge un consumatore a spendere 50 euro per bere un vino tutto sommato nella media? L’appeal della poesia? La seduttività del racconto? La letteratura dell’arcadia contadina? La sua capacità di essere descrittore territoriale (fra l’altro, mentre lo bevevo mi veniva in mente il discorso delle “salite e delle discese” che l’amico Angelo Peretti ha fatto tante volte, immaginando ciò che lui si aspetta da un vino autenticamente trentino: in questo senso forse il Pinot Noir dell’altra sera potrebbe assomigliare ad un vino trentino)? Perchè spendere 50 euro per un vino poco piacevole? Quanto conta, nelle decisione di un consumatore più o meno evoluto, il criterio della piacevolezza, quando ci sono di mezzo tanti (?) soldi?
Ho dato un’occhiata stamattina alla rivista Il Mio vino. Premetto che di solito mi guardo bene dall’acquistare questo periodico e anche dal leggerlo, ma me ne sono ritrovata una copia allegata ad un comunicato stampa. Quindi lo ho sfogliato. Il numero di Marzo contiene un reportage dal Trentino Alto Adige. Titolo: Vini di Classe all’ombra delle Dolomiti. A conclusione del solito redazionale trito e ritrito all’insegna delle eccellenze, buono per ogni territorio, compaiono anche un paio di paginette con i consigli per gli acquisti: su 12 etichette illustrate, 8 sono trentine e 4 sono sud tirolesi. Quale criterio abbiano seguito i redattori del Mio Vino è difficile capirlo. L’Alto Adige viene rappresentato da un metodo classico, da una Doc Caldaro, da un Gewürztraminer e da un blend di una variazione bordolese di fascia alta. A fare la media ne esce un ritratto della viticoltura altoatesina posizionata su una fascia di prezzo medio-alta: 19 euro. Le otto bottiglie trentine presentano un quadro equilibrato, fra Igt e Doc, fra cooperazione e privati, e fra tipologie: 3 metodo classico (Doc), tre autoctoni (Doc) e un paio di cuvée (Igt). Fascia di prezzo, poco al di sotto di quella calcolata per il Sud Tirol: 16,50 euro. E’ un ritratto verosimile, questo, dell’enologia dolomitica di lingua italiana e tedesca? Mah!
Ieri qualcuno mi ha rimproverato le parole al limite dell’entusiasmo che ho usato per la nuova etichetta Cavit (forse quel qualcuno si aspetta sempre da me un atteggiamento pregiudiziale nei confronti dei prodotto coop): Altemasi Pas Dosè 2005. Fra chi mi ha contestato, anche un palato indubbiamente finissimo del giornalismo di settore. Mi è stato rimprevarato l’accenno alla piacevolezza del finale benzoaldeidico di questo metodo classico cooperativo, che secondo me continua ad essere una gran bollicina. Il sentore di mandorla amara che chiude un vino non è di per sé un difetto. Anzi. Regala un aspetto di pulizia balsamica talvolta persino eccitante (almeno per me, che amo anche il caffè amaro). Certo per essere apprezzato deve esprimersi dentro un quadro complesso di fragranze. Che in questo caso secondo me ci sono. Comunque, ancora, prometto di studiare di più.
È lo pseudonimo collettivo con cui fin dall’inizio sono stati firmati la maggior parte dei post più trucidi e succulenti di Territoriocheresiste. Il nome è un omaggio al protagonista del Barone rampante, il grande capolavoro di Italo Calvino. Cosimo Piovasco, passa tutta la sua vita su un albero per ribellione contro il padre. Da lì, però, guadagna la giusta distanza per osservare e capire la vita e il mondo che scorrono sotto di lui.