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di Massarello – La cronaca dei giorni scorsi ha rilanciato la vicenda della cantina La Vis con le polemiche in Giunta provinciale sulla concessione di un ennesimo aiuto finanziario per tentare di sanare una situazione che si trascina da oltre un lustro. Questa lungaggine la dice lunga sulla capacità di affrontare e risolvere. Ossia capacità di capire cos’è veramente successo e di analizzare la situazione all’attualità (diagnosi), prima ancora di studiare il modo migliore per venirne fuori (prognosi).
Ettore Gotti Tedeschi ricordava qualche settimana fa a Trento (al largo dal Festival dell’economia) che “se si sbaglia la diagnosi, è impossibile sperare che la prognosi sia favorevole”. Il paziente muore e pace all’anima sua. Nel nostro caso i pazienti sono migliaia di viticoltori che hanno la sola colpa di aver sistematicamente alzato la mano per approvare di tutto e di più in quelle assemblee dove, anziché stimolare la loro coscienza critica su ipotesi operative, si enfatizzavano facili successi conditi dalla tipica autoreferenzialità del periodo. Nel 2008, con i prodromi di questa crisi, si iniziò a definirla economica e poi, con il fallimento della Lehman Brothers, finanziaria. Diagnosi sbagliata, sostiene Gotti Tedeschi: la crisi è morale. Di valori. Come dargli torto se dopo sette anni di parole siamo ancora punto a capo? Un’altra cosa ricordava il banchiere-moralista: “I mezzi che si stanno impiegando per risolvere i problemi (leggi e delibere comprese) sono totalmente inutili se non si cambiano gli uomini”. Anche su questo punto la cronaca quotidiana continua a dare puntuali conferme, dal Mose all’Expo, fino ai fatti di casa nostra.
Che fare allora? Se si conviene che la crisi è morale, ossia causata da atteggiamenti a-morali degli uomini, è necessario tornare a modelli compatibili con la morale. Anche nell’economia vitivinicola, anche nel sistema cooperativo e quindi anche nelle vigne e nelle cantine di La Vis. Chi deve muoversi? Ovviamente tutti, per la parte di rispettiva competenza. A cominciare dalla politica e dall’autonomia che assegna all’Ente pubblico il compito d’indirizzare, coordinare e controllare i processi economici. Esempio ruvido, ma pratico: smetterla di lasciare ai poli cooperativo-industriali l’indicazione delle linee d’indirizzo per il vigneto trentino (Pinot grigio ovunque), tornando a una politica di territorio dettata dalla PAT. Discorsi fatti cento volte, rimasti inascoltati. Assieme alla politica, è quindi evidente che si deve muovere la cooperazione, non tanto per mantenere lo status quo (finanziamola ancora una volta la La Vis), ma per recuperare un modello compatibile con le nostre dimensioni, le nostre vocazioni e peculiarità. Separando le sacrosante attività industriali da quelle territoriali, con una diversificazione operativa anche nelle cantine di primo grado. Magari smettendo di far produrre uve suscettibili per la DOC per poi declassare a vino IGT senza ritorno d’immagine e notorietà per il territorio. Aspetti critici, questi ultimi due, richiamati anche dal presidente del Consorzio Vini all’inaugurazione dell’ultima Mostra al Roccabruna. Da ultimo, ma non ultimi, i vignaioli: se è vero che rappresentano la quintessenza del prestigio vinicolo residuo, sarà bene che facciano la loro parte giocando nella stessa squadra, evitando di cercare visibilità da soli. Qui si vince tutti o si affonda assieme.
Quindi, ancora sul da farsi: ridisegnare gli equilibri, o meglio, tornare all’equilibrio nel Consorzio Vini in modo che l’interprofessione sia anche “paritetica” fra le tre componenti della cooperazione, del comparto commercio-industria e dei vitivinicoltori singoli. Non essendo il Consorzio una società di capitali e quindi non dovendo dividere utili, è fondamentale che attorno al tavolo “nessuno si senta in minoranza”, altrimenti il Consorzio non funziona, né per la tutela, né per la valorizzazione. Infatti, sostenere che sta funzionando è offensivo per l’intelligenza e perseverare nello scenario quotidiano è diabolico.
La proposta operativa, se così vogliamo chiamarla, oltre che da PAT, Cooperazione e Consorzio, potrebbe essere fatta propria anche dalla stessa La Vis che pure in passato è stata faro per un’intelligente politica territoriale.
Si tratterebbe di prendere atto che il nome TRENTINO per i nostri vini di qualità e TRENTO per gli spumanti di qualità (ossia per la maggioranza della produzione) sono i marchi territoriali su cui tornare a puntare (con eventuale sottospecificazione geografica), relegando le indicazioni varietali ad un ruolo più secondario. La Vis dovrebbe puntare su CEMBRA coinvolgendo anche i privati per un rilancio dei vini tranquilli, come potrebbe affrontare la cronica (e preziosa) eccedenza trentina di Chardonnay con un piano industriale ambizioso al posto del nulla. Quel nulla di nuovo lamentato da politici e creditori chiamati ad un ennesimo atto di fiducia. Non basta, è stato fatto capire chiaramente, impegnarsi in dismissioni in sofferenza e pompare le vendite per la contingenza del momento, ma serve un progetto unitario che – partendo da La Vis – coinvolga contemporaneamente PAT, Cooperazione e Consorzio per risolvere quel paio di nodi che da tre lustri sta bloccando un corretto sviluppo del settore.
I campanelli d’allarme a Nomi, Avio e Isera hanno già suonato, invano. Ma oggi di trentini disposti a metterci 20€ a testa per finanziare un progetto non risolutivo, non se ne trovano più. Prima lo si capisce e meglio si risolve.