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Il post “Declinazione Chardonnay, declinazione Charmat” dell’altro giorno mi ha fatto sfogliare un vecchio Catalogo della XVIII Mostra dei Vini Tipici Trentini (17-26 aprile 1954). La breve enografia dei vini trentini chiude con il capitoletto spumanti: giusto 60 anni fa in degustazione erano tre. Al mitico – e fino ad allora unico – Gran Spumante Ferrari si erano aggiunti il Valdadige frizzante e il Vin de Costera ambedue elaborati dal giovane enologo Nereo Cavazzani per le Cantine del padre Claudio. Originario di Avio e quindi conoscitore della Valpolicella, Nereo aveva già fatto esperienze anche presso il loro importatore di Innsbruck e studiato la tecnica della rifermentazione in autoclave dei tedeschi. Mondi che gli avevano dischiuso l’orizzonte delle bollicine e che lo spinsero oltre i pur preziosi consigli che gli dava il suo Maestro Giulio Ferrari.

Storicamente il Valdadige come tipo di vino era stato proposto fin dai primissimi anni ’20 del secolo scorso e imposto nella Venezia Tridentina con risolutezza fascista negli anni ’30 al posto del Tiroler Wein che ci si sforzava di far scomparire. Per la clientela tedesca e svizzera si usava la traduzione in Etschtaler Wein, non foss’altro che per il richiamo all’Etschtal che stava addirittura nell’inno nazionale germanico. Negli anni ’50 Cavazzani lo propone come frizzante e nel 1975 il Valdadige (bianco e rosso) sarà promosso alla DOC per ovviare agli ICM (importi monetari compensativi CEE che gravavano solo sui vini da tavola esportati). La denominazione, allora la più esportata d’Italia, conserva tuttora la sua ragion d’essere, ma non per la spumantistica. Meno fortuna ebbe il “recioto” trentino Vin de Costera, nonostante lo stupendo nome. E questo, credo, non tanto per il colore rosso o perché copia di un prodotto d’altri, quanto piuttosto perché … una rondine non fa primavera. L’esempio, infatti, non fu seguito da altre cantine ed il brand aziendale, come si direbbe oggi, era troppo debole.

Rimane la considerazione che 60 anni fa c’era del coraggio, voglia di fare, di innovare, di rischiare. Il neo costituito Consorzio delle Cantine Sociali non aveva ancora generato Cavit (1957), ma già reclamava gli spazi di competenza avendo raggiunto il 40% della produzione. Ci avrebbero pensato proprio Tito e Nereo Cavazzani, passati a dirigere il 2° grado, a scaldare l’acqua per la loro generazione. Oggi, con lo Chardonnay salito a un terzo della produzione, con il 90% in capo alla cooperazione (e con le quotazioni del Pinot grigio crollate negli ultimi tre mesi da 1.30 a 0.90) mancano coraggio, voglia di fare, di innovare e di rischiare. Ci si accontenta dello status quo, sotto ricatto di liquidazioni che sappiamo, purtroppo, non essere eterne. Uno status che fa acqua da troppe parti per cui se non si interviene in fretta, rischiamo tutti l’alluvione. Auguri quindi a chi degusterà a Nanno: lì almeno saranno al riparo dalle inondazioni con un’attenzione all’acqua calda che qualcuno aveva già inventato: se di Charmat lungo si tratta, sarebbe giusto e utile parlare di Metodo Cavazzani.

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