di Massarello – Caro Cosimo, riprendo volentieri le difese dell’Enantio che tu continui a mortificare con sacrosante argomentazioni, l’ultima delle quali si legge (qui). Gli spunti sono tanti e per evitare di perdermi tenterò di confutare il tuo dire seguendo i punti che hai messo in fila, con una sola premessa. Necessaria per spiegare perché un tirolese (tiroleso?) come me continua a credere in una causa che sembra persa in partenza.
Brontolavo, 40 anni fa come oggi, per le cose che mi parevano storte e fra queste – allora ben più di oggi – per le rese unitarie delle due varietà che andavano per la maggiore in fondovalle e nella prima collina: la Schiava del nord e il Lambrusco a foglia frastagliata (e Casetta) a sud del Trentino. Produrre molto allora, era l’unico modo per sopravvivere come cooperatore non meno che da privato. I consumi del resto erano ben sopra i 100 l pro capite. Fu in quel contesto che una sera l’orgoglioso Leonello Letrari, stanco di sentirmi straparlare, mi regalò una bottiglia impolverata, scura, pesante e senza etichetta dicendomi: assaggia questa, sarà lì da almeno 15 anni e poi sappimi dire. Degustai con l’attenzione dovuta a un rosso avanti negli anni, non aveva perso la camicia e il limpido granato parlava della sua salute. Gudronato al naso come in bocca, pieno e potente. Ah, pensai, questa è una delle prove del suo Fojaneghe… vedi mò come si evolve il bordolese! Rise, quando in seguito m’interrogò dandomi giustamente del mona dopo che ebbi esaurito la sfilza delle probabili tipologie. Era un semplice Lambrusco f.f. di una vigna sua, ma coltivato come fosse un vitigno nobile. Aggiunse che si sarebbe potuto fare ancor meglio, ma che non c’erano le condizioni. Le condizioni, appunto. Cioè il modo di coltivarlo, riservandogli le selezioni e le cure dei nobili, di elaborarlo, affinarlo e di proporlo in purezza, non già come base di vini quotidiani del tipo Casteller. Un tarlo, quello infilatomi dal Nello, che mi rode ancora, anche con una produzione ormai vicina allo zero virgola. O forse proprio per questo.
Ribadisci, caro Cosimo, che Enantio (come è stato ribattezzato) è nome squisitamente commerciale senza la squisitezza filologica di pliniana memoria. Qui ci vorrebbero Attilio Scienza che sui vini enantini tenne ad Avio una memorabile relazione (se la trovo nel vecchio pc te la mando) e Paolo Castelletti, allora presidente del Consorzio Terradeiforti e oggi segretario gen. dell’Unione Italiana Vini, che dell’Enantio fece una bandiera. Di mio aggiungo solo che un nome nuovo si imponeva sia per evitare la confusione con i Lambruschi emiliani (frizzanti), sia per comunicare a viticoltori e consumatori che si trattava di cosa ben diversa dal Lambrusco f.f. di antica memoria. Il tuo “squisitamente commerciale” non tiene conto che 15 anni fa – quando il nostro territorio non aveva ancora perso la sua battaglia – quello promosso da Terradeiforti era un piccolo importante progetto di marketing territoriale che coinvolgeva due Cantine sociali a scavalco del confine fra Trento e Verona e una decina di produttori che coprivano per intero la zona interessata. L’Enantio nobilitato sarebbe stato il dio nel quale credere. Ma nobili, purtroppo, non si sono dimostrati i sacerdoti chiamati ad officiare il rito proposto, né i politici dei due versanti, né i produttori più importanti. Preferirono Mammona (Pinot grigio), anche quella volta. La cantina veronese si vendette ai rotaliani, quella trentina finì ridimensionata, l’industriale non sposò la causa e gli altri rimasero col cerino in mano. Un’occasione persa per un territorio che col cerino è costretto ad accendere candele votive sugli altari d’Oltreoceano accontentandosi di quello che passa il convento. Non mi pare una gran conquista, né l’unico modo per riscattare viticoltori e cantine che potrebbero aspirare a ben altro, con l’uva che hanno in mano. Non per nulla sono tornati ad essere territorio di conquista per enologie più evolute, sempre e ancora vassalli.
Dici ancora, Cosimo, che Enantio è brutto come nome (sarà bello Lambrusco a foglia frastagliata!?) e che si sbagliò con la forma latineggiante per nobilitare… Scripta manent! Gaio Plinio Secondo detto il Vecchio nel I sec. d.C. descrivendo i vigneti a nord di Verona dice: “Hoc est vitis silvestris quod vocatur oenantium…” quindi è stato lui che per primo mise assieme la vite silvestre, selvatica, quella che per l’ampelografia diventerà Lambrusco – da labrum, che cresce arrampicandosi al margine del bosco e da brusco, ruvido – con il nome di oenantium che di nobiltà ne ha da vendere se è vero che già nell’antica Grecia le vestali incaricate di bruciare i fiori essiccati di quelle viti s’inebriavano coi sacerdoti (sempre loro) in danze e riti che oggi finirebbero … in una retata della polizia! Enantio, quindi, ha la sua ragion d’essere in TdF, con un bagaglio bimillenario da far impallidire molte delle altre “nobili” cultivar. Certo, per tutto questo tempo sul vitigno si è lavorato troppo poco, assente anche San Michele perché nessuno mai si è premurato di chiedere aiuto per renderlo moderno e nemmeno il lodevole impegno nel recupero del vigneto storico del Ciso è stato funzionale ad un progetto di un po’ più ampio respiro.
In definitiva, caro Cosimo, convengo con te che l’Enantio oggi non c’è, ma non è morto del tutto, tant’è che gli fanno fare da beccamorto per il centenario della Grande Guerra. Tu puoi dire quello che vuoi: se il vecchio Plinio avesse saputo, avrebbe scritto qualcos’altro sul suo notes e soprattutto avrebbe potuto trovarsi con Columella a Sirmione per ricordare Catullo e Virgilio, tutta gente di riguardo, invece di correre a Pompei per restare sotto i lapilli del Vesuvio in eruzione… Come vedi, di storie da raccontare ce ne sarebbero, la nobiltà spolverata dalla genomica pure, ma se non si vuole alzare la testa non resta che inarcare la schiena sotto l’ala della pergola. Per conto terzi.
Cordialmente tuo,
Massarello
PS: Mi è venuto il sospetto che in fondo in fondo tu l’Enantio lo ami, ma forse lo temi. Può essere? Sarà perché l’oenanthium era autofertile e non aveva bisogno di essere impollinato?
Pseudonimo utilizzato da uno dei personaggi chiave del vino trentino, depositario di segreti,conoscitore di vizi e virtu dell’enologia regionale e non solo.
Massarello alias Angelo Massarelli, nato a San Severino Marche nel 1510, dopo gli studi in seminario si laureò in leggi canoniche e civili presso l’Università di Siena.
Tornato a San Saverino fu dapprima assegnato alla chiesa di S. Eligio e poi fu eletto priore della collegiata della cittadina.
Grazie alla frequentazione di alcuni letterati conobbe il cardinale Marcello Cervini, futuro papa Marcello II.
Quando il papa Paolo III delegò il cardinale Cervini ad assumere la presidenza del Concilio di Trento, questi volle come segretario del Concilio il Massarelli. Un cardinale così descrive l’operato del Massarelli: «essendo egli lodato dal testimonio incontrastabile dell’esperienza, ed ammaestrato dall’esquisita scuola dell’esercizio, tenne stabilmente il grado di Segretario del Concilio».
Durante gli intervalli delle sedute del Concilio svolse l’importante mansione di Segretario di Stato del pontefice.
Sotto il breve pontificato di papa Marcello II il Massarelli fu suo consigliere.
Dal successore di Marcello II, papa Paolo IV, fu designato vescovo di Telese o Cerreto il 15 dicembre 1557 e fu consacrato a tale ufficio pochi giorni dopo, il 21 dicembre.
Fu autore di un minuzioso diario dei lavori del Concilio dal titolo Acta genuina ss. oecumenici Concilii tridentini.
Terminato il Concilio di Trento nel 1563, il vescovo Angelo Massarelli fu dapprima ministro della Segreteria di Stato e poi Segretario del Supremo Tribunale della Riformazione (successivamente chiamato Sacra Consulta).
A causa dei suoi numerosi impegni venne poche volte in diocesi e si fece rappresentare da un vicario vescovile di sua nomina.
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In tempi andati.. con la cara amica Rita Zanoni – La Prebenda – a Verona, per cui in campo neutro.. dissi che l'Enantio avrebbe potuto aspirare al titolo di Barolo del futuro.. Rimango sempre della stessa idea.. Caro Massarello, piccolo appunto : non lo definirei "becchino" della Grande Guerra.. Detesto accomunare i reazionari agli Irredentisti.. ( La " i " è maiuscola di default..con buona pace degli Schuetzen…) ) Mi piace pensarlo come un Vino.. finito per caso nella gamella di mio nonno, pluridecorato della brigata Sassari, prima di un assalto, magari con la "pattadesa"… invece della savoiarda baionetta…