Non provo alcun imbarazzo nel confessare che nutro della stima nei confronti del presidente dell’Istituto Trento Doc, Enrico Zanoni. Stima che immagino non sia ricambiata: ma come l’amore, la stima non necessità di reciprocità. Come per l’amore, anche per la stima, anzi, la reciprocità è una condizione più unica che rara. Si ama (e si stima) a prescindere. E per lo più senza aspettative.
Comunque, per tornare a noi, dicevo che nutro della stima per il manager padano a cui spetta il compito di dirigere, oltre all’Istituto del TRENTO, anche Cavit. Ne ho sempre apprezzata la capacità di analisi, l’inclinazione alla trasparenza e la schiettezza. E poi è anche un uomo colto e garbato, che non nasconde le sue origini contadine. Il che non guasta. Sui contenuti delle sue scelte non mi sono quasi mai ritrovato d’accordo, ma questo è un altro paio di maniche: riconosco il registro della coerenza fra il mandato che gli è stato conferito e la declinazione concreta delle sue azioni. Quello che piacerebbe a me, e a pochi altri, è tutt’altra storia.
Questa lunga premessa per dire che stamattina, fra il secondo caffè e la terza sigaretta, ho trovato il modo per leggere l’intervista prenatalizia che il manager di Cavit ha rilasciato alla rivista Italia a Tavola. Intervista che vi segnalo: Trentodoc tra i protagonisti del Natale Zanoni: La carta vincente è la qualità.
Fra una risposta e l’altra, il manager ci dice alcune cose piuttosto interessanti. Intanto, l’ennesima conferma, e questa volta ha il valore dell’ufficialità, che la produzione di metodo classico in Trentino vale 7 milioni di pezzi. Quindi un milione in meno rispetto a quelle dichiarate, dallo stesso Zanoni, più o meno un anno fa. Poi che il mercato della bolla trentina è un mercato esclusivamente domestico: solo il 10 % della produzione trova la via per l’estero. E da questa dichiarazione ne dovrebbero discendere alcune considerazioni circa le strategie promozionali adottate in ambito consortile (i vini trentini che volano a New York): ma di questo ne scriverò un altra volta.
Infine, e questa mi sembra la cosa più interessante, l’ammissione che la denominazione TRENTO non può, e non deve, essere in messa in comparazione con quella dello Champagne. Lo Champagne è lo Champagne e il TRENTO è il TRENTO. Li accomuna il metodo (classico), ma per il resto sono prodotti e fenomenologie affatto differenti e non comparabili. Questa ammissione potrebbe sembrare una banalità, ma non lo è. Intanto perché il malcostume di affiancare queste due tipologie – spesso per dire che la “nostra” è superiore – è un vezzo ancora molto diffuso non solo fra i produttori ma anche fra i vertici delle istituzioni enologiche trentine. Soprattutto fra quelle che dimorano dalle parti di palazzo Roccabruna. E poi, e qui forse il ragionamento si fa più sottile, perché questa attestazione di incomparabilità fra i due prodotti, implica esplicitamente il riconoscimento di un profilo identitario marcatamente territoriale. E anche questa non è una cosa scontata È lo pseudonimo collettivo con cui fin dall’inizio sono stati firmati la maggior parte dei post più trucidi e succulenti di Territoriocheresiste. Il nome è un omaggio al protagonista del Barone rampante, il grande capolavoro di Italo Calvino. Cosimo Piovasco, passa tutta la sua vita su un albero per ribellione contro il padre. Da lì, però, guadagna la giusta distanza per osservare e capire la vita e il mondo che scorrono sotto di lui.