di Angelo Rossi – Non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato”. L’aforisma di Einstein mi viene in mente pensando alla vicenda di LaVis che si tende a ridurre banalmente alle aride cifre di sbilancio, confondendo i valori in campo. Che si sia amministrato male, che per rimediare si sia commissariata la cooperativa, che si sia nominato un AD e che la governance non sia riuscita a quadrare il cerchio, sono passaggi che non avrebbero mai soddisfatto l’assunto del grande fisico tedesco. Come dire che se sbagli l’analisi, anche il progetto più raffinato è destinato al fallimento. E’ brutale, ma i nodi irrisolti prima o poi vengono al pettine e scovare i nodi nell’intricato reticolo di relazioni che LaVis aveva costruito negli anni sarebbe stato fondamentale per ridurre le sofferenze temporali, come fondamentale appare ancor oggi parlare di questi nodi alla vigilia di decisioni ancor più dolorose.
La vicenda va quindi inquadrata nello scenario di 30-40 anni fa con il Trentino vinicolo che combatteva la sua battaglia per affrancarsi dalla dipendenza dagli storici concorrenti sui confini a nord e a sud. Per rendere l’idea: il cavalier Cesconi dirigeva la Cantina di Lavis-Sorni-Salorno (la migliore della Regione) fornendo vini sfusi “nobili” alle più blasonate aziende vinicole e spumantistiche nazionali, mentre in Cavit l’enotecnico Cavazzani era impegnato nell’imbottigliamento dei vini trentini conferiti dalle associate. I conti in Cavit però non tornavano (anche se era il miglior Secondo grado d’Italia) e la soluzione di acquisire vini a prezzo sul libero mercato fu la scelta che si impose. Cavazzani fu così sostituito da Giacomini che, con la nuova strategia, consolidò Cavit rendendola profittevole. Nel frattempo Mezzacorona, che non volle mai rompere il rapporto diretto con il viticoltore, sviluppava (perfezionandola), la sua strategia. LaVis, con Peratoner e Giacomoni, mordeva il freno osservando le performance dei due outsider; Cavit non volle concedere autonomia ai lavisani cosicché si giunse ad un ruvido divorzio. LaVis era impegnata su più fronti, alcuni “nobili”, altri in linea con le scelte dei suoi competitor.
Oltre alla “fusione” con Cembra, il più nobile dei suoi impegni e con potenziali riflessi positivi su tutto il sistema del Primo grado fu quello di dimostrare che in cooperazione si poteva (si doveva) discriminare tra socio e socio, ossia tra viticoltore professionale orientato alla qualità (progetto Ritratti) e viticoltore, magari part-time, non insensibile alla quantità. Un percorso difficile (come quello di Cavazzani) che avrebbe dovuto essere sostenuto dall’Ente pubblico e dall’Istituto del Vino, ma che non si realizzò perché il valore di riferimento era già diventato quello della massima redditività, con tutte le sue conseguenze. Proprio per seguire questa linea, LaVis diversificò il suo sviluppo, pur mantenendo chiaro l’ancoraggio al territorio, con Cesarini Sforza, Girelli, Basilica Cafaggio, Poggio Marino, Maso Franch e Consorzio 5 Comuni per le mele. Più le società all’estero. Questo terzo polo, pur sostenuto politicamente, non riuscì a consolidarsi sia per il venticello della calunnia (mai approfondito), sia per lo tsunami della crisi globale che colpì i deboli e i malamente difesi.
Ciò che è successo dopo è cronaca recente per cui conviene guardare avanti, nonostante perduri la crisi d’ideali e di valori sia della politica come della Federazione della Cooperazione. Nella vicenda di LaVis, infatti, non vanno scontate le assenze (più o meno volute) di questi due soggetti prima ancora di altri che pure avrebbero potuto/dovuto elaborare una strategia di territorio utile a LaVis non meno che all’intero sistema vitivinicolo trentino. Il riferimento all’Ente camerale o al Consorzio Vini è pleonastico. Detto questo, LaVis non si potrà salvare mai fintanto che non si prenderà il sacco in cima, resettando tutto e progettando un nuovo sistema già ampiamente illustrato su queste colonne. Infatti LaVis è solo la punta dell’iceberg di un modello di sviluppo che va rivisto serenamente, ma risolutamente. Una strada è partire dal Dossier Vino della FEM, altrimenti si parta dal riposizionamento dei Primi gradi incaricandoli di un progetto territoriale rispettoso delle esigenze degli Oligopoli, ma incardinato sulle moderne esigenze distrettuali. Sarebbe un beneficio per tutti: per gli oligopoli che potrebbero interagire con i partner sovra-regionali sui mercati globali, per i Primi gradi che potrebbero relazionarsi con i Vignaioli nei distretti di competenza per mercati più circoscritti, per il Trentino vinicolo tutto perché torni protagonista nel ruolo che gli compete, con attenzione agli aspetti ambientali e turistici. In questo contesto anche LaVis, la Nuova LaVis, convincerebbe i suoi creditori che non avrebbero scusa alcuna per continuare a nicchiare. Se gli uomini non vogliono ravvedersi bisogna cambiare gli uomini, altrimenti tutti pagheranno un prezzo troppo alto e troppo a lungo. Un incubo o un sogno?
Sognare non costa niente, ma se non si sogna rimane l’incubo del quotidiano tran-tran che mette le pezze sui buchi col risultato, per dirla in vernacolo, che alla fin el tacòn l’è pezo del buso.
Enologo, direttore del Comitato Vitivinicolo Trentino fra gli anni Settanta, Ottanta e Novanta, già membro del CdA Fem e vicepresidente di UDIAS, l’associazione degli studenti di San Michele, ed ex capitolare della Confraternita della Vite e del Vino di Trento. Largo ai giovani.
Signor Rossi bellissima la sua analisi, che condivido appieno. Peccato che dalla lettura dei giornali di oggi si apprende che si farà l'esatto contrario di quello che Lei saggiamente suggerisce. Nessun sacco preso dalla cima. Nessun cambio di uomini. Solo il solito palliativo dei soldi pubblici ( 9 milioni dicono ) per mettere la solita toppa. E tirare a campare navigando a vista.
Hanno trovato il modo di dare un po' di ossigeno alla cantina passando per Trentino Sviluppo e quindi driblando tutti i problemi della cantina e trattando casa girelli come un qualsiasi soggetto industriale.