Condivido in anteprima con i miei quattro lettori le risposte alle domande che mi sono state rivolte nei giorni scorsi dalla redazione di una rivista enologica.
Sono stato bravo o sono stato cattivo?
La prima domanda è d’obbligo: come giudica la partecipazione del Trentino ad Expo 2015 (in particolar modo al Padiglione Vino) e le recenti polemiche connesse alle strategie di esposizione?
Vado contro corrente: penso che la scelta “narrativa” messa in campo ad EXPO, sia stata capace di raccontare con semplicità ed eleganza alcuni profili territoriali del Trentino. Se non ha funzionato, questo è dipeso dalla debolezza intrinseca del prodotto trentino, non dalle scelte espositive e promozionali.
Circa un mese fa lei richiamava l’attenzione sulla necessità di una migliore promozione dei vini del Trentino, che cosa si sente di dire a tal proposito agli enti preposti?
Il tema vero non è la promozione. Il tema vero è il nesso fra vino e territorio. Ed è questo ciò che manca al Trentino: un vino territoriale da promuovere. L’industrializzazione intensiva della vitivinicoltura, che si rispecchia nella struttura decisamente varietalizzata della DOC, ha fatto saltare questo nesso e ha ucciso l’autoctonismo. Le fornisco alcuni numeri: nel 1980 le uve autoctone sfioravano il 70 % del vigneto, nel 2014 erano meno del 15 %; quando salta questo nesso, tutto diventa difficile, perché un vino senza territorio è un vino merce, è una commodity industriale. Non a caso le bottiglie di eccellenza sono scivolate fuori dalla DOC e si sono rifugiate nella meno compromessa IGT: Foradori, Pojer e Sandri, San Leonardo, tanto per fare alcuni nomi molto conosciuti.
Lei vede un’egemonia, a livello di notorietà, da parte della denominazione Trento DOC che soffoca altre produzioni vinicole?
No, non è questo: la denominazione TRENTO, in volumi, rappresenta circa il 5 % dell’imbottigliato da uve trentine e la metà rispetto all’imbottigliato complessivo. Loro, pur con molti limiti, stanno facendo bene, stanno lentamente costruendo reputazione, anche se dal 2007, anno dell’invenzione del marchio collettivo TRENTODOC, la produzione non è aumentata di una sola bottiglia: 7 milioni erano allora e 7 milioni sono oggi. Ma il problema non è il TRENTODOC, il problema è quel 95 % della vitivinicoltura trentina schiacciata sul vino industriale, è lo iato fra vino e territorio..
Sappiamo che lei è una personalità molto attiva nel settore: sta lavorando a progetti che operino verso una maggiore visibilità dei vini del trentino?
Con gli amici di Trentino Wine Blog, di SKYWINE, delle Città del Vino, con molti amministratori locali e con tanti produttori, per fortuna anche cooperativi, stiamo lavorando sulla ricostituzione di alcune doc fortemente territorializzate: la Superiore di Isera e dei Ziresi per il Marzemino e la Terradeiforti, per i vini Casetta e Enantio. In modo da costituire un asset riconoscibile del vino territoriale a sud di Trento e a nord di Verona.
È lo pseudonimo collettivo con cui fin dall’inizio sono stati firmati la maggior parte dei post più trucidi e succulenti di Territoriocheresiste. Il nome è un omaggio al protagonista del Barone rampante, il grande capolavoro di Italo Calvino. Cosimo Piovasco, passa tutta la sua vita su un albero per ribellione contro il padre. Da lì, però, guadagna la giusta distanza per osservare e capire la vita e il mondo che scorrono sotto di lui.
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