Cappuccetto Rosso
Cappuccetto Rosso – Paola Attanasio

Titolava più o meno così – Un anno perduto – un articolo di Roberto Saviano sulle occasioni mancate nell’anno che sta per chiudersi. Qualcuno dirà che quello vede sempre il bicchiere mezzo vuoto. Pensando al Trentino e poi al settore vitivinicolo si potrebbe riproporre un titolo analogo e siccome siamo inseriti in un contesto orgogliosamente autonomo, ossia più svincolato dal centro e più aderente ai bisogni locali, beh, c’è da dire subito che lo sbandierato terzo Statuto d’Autonomia è di là da venire, che nessuno ne sa granché e che ben pochi se ne interessano. Eppure sarà fondamentale soprattutto per lo sviluppo ulteriore dell’economia. I Governi locali si sono più occupati del tunnel del Brennero (senza dire tutte le verità) e delle tratte d’accesso (come chiamano i 220 km fino a Verona) con un investimento vertiginoso rispettivamente di 16+32 miliardi, cui contribuisce un fondo dell’A22 di 550 milioni (al confronto sembrano bruscolini) messo a garanzia del rinnovo della concessione per altri 30 anni. Un’opera megagalattica che sta passando sotto traccia e che verosimilmente farà penare le prossime generazioni. Un bicchiere ancora mezzo vuoto, ma già duro da trangugiare.
In Trentino siamo sempre in 550 mila, di cui 227 mila sono soci di cooperative. A dispetto del nome, questi si rifanno ad un capo che pesa e li fa pesare per quasi la metà del tutto. Se poi scendiamo all’agricoltura, la percentuale in peso sale al 90% e allora è evidente che non si può prescindere. Come dire: se a fine 2015, dopo i biblici 7 anni di vacche magre, il bicchiere appare mezzo pieno il merito va prima di tutto al modello cooperativo. E chi non s’accontentava prima, non sarà felice nemmeno ora che al vertice della Federazione trentina della cooperazione è salito un banchiere e con un vice agricolo che è specialmente vitivinicolo. Ed eccoci al comparto che ci interessa. Che dire del 2015 vitivinicolo? Un anno perso? Per i bilanci certamente no: buone liquidazioni e nessun fallimento, nemmeno di chi come LaVis stava portando i libri in tribunale. Dopo il primo commissario, viziato di suo per non aver capito che la strada di una certa globalizzazione era ormai preclusa, il secondo ha infatti ridimensionato le ambizioni riconducendo la compagine nella più corretta competenza dei primi gradi, verosimilmente salvando una delle più importanti Cantine del Trentino.
Ma il vino non è fatto solo di bilanci, anzi, ci piace continuare ad immaginare che sia il risultato delle amorevoli cure del viticoltore, di quel viticoltore o di quel gruppo di viticoltori indissolubilmente legati alle vigne di quel territorio, poi del cantiniere, fino all’oste o al negoziante. Senza soldi non è pura fantasia? Il punto è qua: col vino – quello di territorio cui ci riferiamo – la vil moneta deve restare sullo sfondo e non occupare sempre e comunque il primo posto sulla scala dei valori. E’ una regola aurea che in Trentino non si è mai imparata e il sistema, quello del 90%, non perde occasione per confermare la tendenza. Chi ha dubbi, scorra a ritroso i titoli richiamati dalla rassegna stampa coop, linkabile anche da questo sito: tre quarti degli articoli riguardano banche e salvabanche, casse rurali e sofferenze, crediti e debiti, interessi e quotazioni, liquidazioni e soldi, sempre soldi … tutto ruota attorno all’economia e al mercato, meglio se globale. E’ un segno dei tempi, si dirà. Orbene, non è che si debba ridurre tutto e subito al più severo monachesimo (che pure ha il merito di aver salvato vite e vino dalle orde medievali), ma un riposizionamento di valori “altri” sulla scala appare sempre più urgente, possibile e anche opportuno.
In definitiva, dal punto di vista del territorio il 2015 è stato un anno perso. Si sono cambiate pure le presidenze di Cavit e di qualche Cantina di primo grado, si sono cambiati i vertici del Consorzio Vini e quelli dell’Istituto Agrario di San Michele (FEM), anche i Vignaioli hanno un direttore nuovo: tutti accompagnati da eccellenti propositi, ma nessuno – almeno finora – che abbia sfoderato un progetto di rilancio delle politiche di territorio. Peccato, perché un’attività da lasciare ai figli poggia meglio su due gambe (glocal), sapendo che si guadagna bene anche vendendo il proprio territorio con l’aggiunta della soddisfazione morale e dell’orgoglio di appartenenza, senza intaccare il business dei mercati globali che non vanno più in là del mero tornaconto economico.