Non sarò io a scrivere che ieri sera la trasmissione televisiva Presa Diretta, su Rai 3, “ha compiuto uno scempio mediatico contro il vino italiano”. Non sarò io a scrivere che quello andato in onda ieri sera dalle terre del Prosecco, è stato un reportage “penoso”. Non sarò io, perché dalla tribuna di questo blog, fin da quando è nato, ho cercato di non nascondere nulla di quello che accadeva, e accade, intorno al vino. Nei sottoscala dei potere e nei sottoscala delle cantine.
Quella andata in onda ieri sera, a mio parere, è un pezzo di verità. Un pezzo di verità che forse non ha fatto piacere a qualcuno. Ma che, secondo me, era, è, giusto raccontare. E non mi si venga a dire che il vino è anche un’altra cosa, tante altre cose. Questo lo sappiamo tutti. Soprattutto noi che il vino lo amiamo. Ma di “benaltristi”, di quelli che quando si parla di una cosa, ti dicono che ce ne sono ben altre di cui parlare, che sono ben altre le priorità a cui dedicarsi, ne ho piene le tasche.
Dunque, ieri sera, cosa ci ha raccontato la televisione di stato? Intanto che nelle campagne del Prosecco, come in tutte le campagne del mondo – quasi -, si usano pesticidi. E che i pesticidi non sono acqua santa. E allora, dove sta la novità? Su questo tema, ci confrontiamo, anche sul questo blog, da molto tempo. Il tema del biologico, della sostenibilità, della salute è un tema attuale ed emergente. Così come quello dell’equilibrio fra economia agricola, con le sue pratiche che per lo più prevedono anche l’uso di pesticidi seppure con una tendenza alla riduzione del danno, e il tessuto urbano e abitativo. Lo dobbiamo nascondere? Dobbiamo fingere che la viticoltura sia indenne da queste fragilità? Lo sappiamo tutti che non è così; lo sappiamo anche in Trentino, dove mediamente la vigna viene amorevolmente trattata circa 15 volte all’anno (e per fortuna siamo una terra vocata), da uomini che entrano nei campi con lo scafandro da palombaro come se stessero andando alla guerra. Perdonatemi, ma è troppo comodo, passare tutto l’anno a scandalizzarsi per i veleni dell’Ilva o per per quelli di Porto Marghera, e poi fingere, come qualcuno fa, che l’agricoltura italiana viva dentro una bolla di santa verginità. Chi oggi si scandalizza per le immagini girate fra le campagne del Prosecco, è chi l’estate scorsa mi è saltato addosso minaccioso quando ho denunciato l’uso nelle campange del Trentino meridionale, ad un mese dalla vendemmia, del Clorpirifos. Si fa ma non si dice. Insomma. E invece, penso, che sia il caso di raccontarle le cose. Certe cose. Tutte le cose.
Ieri sera, poi, le anime candide del vino italiano si sono scandalizzate – e scandalizzarsi non è un segno di intelligenza – perché hanno scoperto che esiste anche il vino industriale. Eggià il vino industriale esiste. E si tratta della strangrande maggioranza, in volumi e in valori, del vino italiano (anche italiano). E’ quello che ogni tanto mi capita di chiamare vino merce. Forse sarebbe meglio chiamarlo vino popolare, visto che è il vino bevuto dalla stragrande maggioranza degli italiani (pubblico in calce alcune utili tabelle estrapolate da un recente studio Nomisma – Wine Monitor): nel 2013, il 90 %, sul volume off trade, del vino venduto si collocava sotto la fascia dei 4,99 euro. Dunque il vino industriale esiste. Chi ha letto anche solo superficialmente un disciplinare di produzione di una qualsiasi DO, dovrebbe essersene fatto una pur pallida idea. Chi è entrato, anche una sola volta in una cantina di medie dimensioni, a meno che non abbia chiuso gli occhi e li abbia riaperti solo quando è entrato nella mitica barricaia, deve aver intravisto da qualche parte un laboratorio di analisi. Analisi che si fanno, in ogni cantina per bene, mica per misurare i sentori di sella di cuoio o gli afrori agrumati.
Dai su ragazzi, smettiamola di fingere. E di non vedere. E guardiamo avanti. Con realismo e senza spocchia. E se qualcuno ci racconta che qualcosa non va, magari andiamo a vedere cosa non va. Anziché aprire gli occhietti belli solo in barricaia. Perché non esiste solo il vino estetico, quello che procura orgasmi stendhaliani, non esiste solo il vino politico, quello capace di rappresentare il territorio e di esserne protagonista, non esiste solo il vino antropologico, quello che ci racconta delle tradizioni ancestrali dei nostri nonni, non esiste solo il vino etico, quello che quando lo bevi ti fai anche il bidet alla coscienza, non esiste solo il vino semiotico, quello che ti consente di interpretare i segni del presente e di costruire nuovi codici comunicativi per il futuro. Esiste, per fortuna, anche il vino merce o vino industriale o vino popolare. Ed è quello che mettiamo in tavola, a pranzo e a cena, ogni giorno tutti noi che non possiamo permetterci, quando mangiamo, di spendere più in vino di quanto spendiamo in pasta, in carne e verdurine.
È lo pseudonimo collettivo con cui fin dall’inizio sono stati firmati la maggior parte dei post più trucidi e succulenti di Territoriocheresiste. Il nome è un omaggio al protagonista del Barone rampante, il grande capolavoro di Italo Calvino. Cosimo Piovasco, passa tutta la sua vita su un albero per ribellione contro il padre. Da lì, però, guadagna la giusta distanza per osservare e capire la vita e il mondo che scorrono sotto di lui.
Paola Attanasio che ne pensi?
Buh
Paola Attanasio cosa vul dire Buh?
Che non so cosa sto pensando: Buh
Tiziano, quando Paola Attanasio dice "Buh", dobbiamo rassegnarci.
Io, perlomeno, mi rassegno.
A te la sfida di capire che cosa caspita significhi 😀 Io ci ho rinunciato da anni!
Paola Attanasio che ne pensi…?
No, no, il vino nooooooo… raccontaci piuttosto e vie più che Dio non esiste!
Ethan Ol. Il famoso Dio dell'allegria… 😉