Erano mesi che venivo descritto da un Lorem Ipsum e non mi decidevo mai a cambiarlo. Un po’ per pigrizia, ma anche perché mi piaceva che a descrivermi fosse un nonsense poetico, che parlava di un luogo remoto, lontano dalle terre di Vocalia e Consonantia … oggi però sento che è venuto il momento.
Lombardo di nascita e residenza, trentino di origine e di cuore, qualche affetto mi lega anche al Piemonte. Di mestiere faccio altro, il consulente di ICT Management; fino a non molto tempo fa il vino lo ho frequentato solo dall’orlo del bicchiere.
Conosco Cosimo Piovasco di Rondò da quando eravamo bambini; un giorno ho cominciato a scrivere su Trentinowine, per gioco, su suo suggerimento, e per gioco continuo a farlo. Seguo il corso di sommelier della FISAR Milano, divertendomi un sacco.
Più cose conosco sul vino, meno mi illudo di essere un professionista o un esperto. Qualcuno, ogni tanto, dice di leggermi e di apprezzare questo mio tono distaccato; io mi stupisco sempre, sia del fatto che mi leggano, sia che apprezzino. E ne vado fierissimo.
Il vino deve essere un po’ come le Madeleine di Proust che suscitano emozioni e ricordi, che riportano indietro nel tempo e altrove nello spazio, alla ricerca del proprio essere; che non si esauriscono in un vetro svuotato, ma raccontano degli uomini e del territorio. Così la pensa il professor Attilio Scienza, che inizia in questo modo il suo intervento in apertura della degustazione del Valcalepio en primeur, (cioè prodotti nel 2015 e che non hanno fatto ancora un passaggio in botte, tantomeno in barrique) presso il Castello che sovrasta la tenuta di Grumello. Non so se sia una forma di neuromarketing proustiano, ma non posso fare altro che sottoscrivere.
La serata era iniziata maluccio, sotto una pioggia battente, e non era andata avanti granché bene: tutti in piedi, piuttosto stipati nell’androne delle cantine del castello, ad ascoltare il professore: un po’ come si ascolta il Vangelo alla messa della domenica. In mano non c’è un messale, ma un volantino con i nomi dei produttori (senza indirizzo), e la lista dei vini in degustazione su una facciata.
Ma il professore è competente e affabulante. Ci racconta delle origini del Cabernet Sauvignon, dall’Epiro fin verso i paesi baschi, e poi verso La Francia. Un errore di traduzione dà al Cabernet il nome di una malattia; è un errore di quelli che entrano nella cultura e nel linguaggio, un po’ come quello del cammello che passa attraverso la cruna di un ago, e che nell’originale era una gomena. In Francia il Cabernet, orientale, si incrocia con il Sauvignon, un vitigno autoctono (il nome deriva da sauvage, selvaggio) e diventa appunto Cabernet Sauvignon. Vino di poca resa, ma di alta qualità, e per questo status symbol destinato ai nobili, che non dovevano sostentare la famiglia grazie alla resa del vigneto.
Attraversa una storia segnata da migrazioni, di matrimoni d’alto rango in cui i tralci venivano portati come dote dalle spose o regalati dall’imperatore Probo alla moglie, per ricostruire la viticoltura francese. Viene diffuso in Francia dai benedettini insieme ad altri vitigni, poi importato in Italia, sempre da nobili imparentati con viticoltori francesi. In Piemonte e in Toscana, dà origine a grandi vini.
Il merlot invece è un vino povero, anche questo dalla storia simile a quella del Cabernet Sauvignon ma di resa molto più generosa. Viene coltivato dai contadini, soprattutto nel Veneto dopo la filossera. Si tratta di un vino molto più facile da trattare e da bere, più zuccherino, che non richiede necessariamente invecchiamento; è morbido, complesso, con tannini dolci e proprio per queste caratteristiche è particolarmente adatto a essere accostato al Cabernet Sauvignon in un taglio, il taglio bordolese, che oggi è una pietra miliare dell’enologia. Fra tutti i Cabernet spicca il Sassicaia che nel 1978 a Londra sbaraglia tutti i Cabernet francesi in una degustazione alla cieca; e circa 15 anni dopo tutti i Cabernet del mondo. Nascono altri vini famosi; tra quelli che cita, il professore non dimentica il San Leonardo.
Così, uno dei prodotti che definiscono la nostra identità enogastronomica, e non solo, forse contribuiscono a definire la nostra identità culturale, nasce da migrazioni di popoli e di vitigni, dai matrimoni misti, dal connubio tra un vitigno ricco e aristocratico con uno povero e popolano. Chi ha orecchie da intendere, intenda.
Il Valcalepio è per l’appunto un taglio bordolese, prodotto in provincia di Bergamo.
La serata di degustazioni è anch’essa confinata in uno spazio angusto, tra le botti alle barricate in un lungo corridoio dove siamo di nuovo tutti stipati ad assaggiare i vini en primeur. Si tratta di tagli bordolesi, per la maggior parte, anche se c’è qualcuno che propone il Cabernet Sauvignon in purezza.
Essendo vini del 2015, sono ancora acerbi, e spesso duri, forti di tannini. Qualcuno è già molto equilibrato, per essere appunto un vino del 2015, ad esempio il morbido Ripa di Luna rosso di Caminella (45% Cabernet Sauvignon, 55% merlot), oppure il sorprendente Sant’Egidio, che si preannuncia strepitoso, con il suo “Vino Atto a Valcalepio DOC Rosso 2015” (60/40). Molto potente il Valcalepio Merlot Cabernet 2015 (70/30) de Le Corne, ma anche molto promettente.
Estremamente pregevoli anche il Colle Calvario del castello di Grumello, e il Donna Marta rosso 2015 della tenuta Le Mojole.
Durante questa degustazione incontro Gianni Longoni, delegato FISAR Milano, con i suoi piacevoli modi da gentiluomo di altri tempi. Scambiamo due parole e concorda sul fatto che ci troviamo di fronte a produttori molto bravi, che producono dei vini interessanti. Si tratta di un’opinione autorevole che conferma la mia impressione iniziale, di trovarmi di fronte a dei vini che meriterebbero una maggiore diffusione e conoscenza. Ci rivedremo all’indomani, alla degustazione dei Riesling austriaci organizzata dalla FISAR.
Per quanto riguarda gli spazi e l’allestimento la musica cambia, per fortuna, salendo al piano superiore. Ci troviamo nel castello: gli spazi sono molto più ampi e arredati come si conviene a un castello; qui ha luogo la degustazione dei vini non più en primeur, ma di quelli già immessi sul mercato.
Avrei voluto provare il taglio della tenuta Sant’Egidio, ma avevano solo i vini in purezza. Tra questi il Turano 2012, Cabernet Sauvignon, colore rubino, speziato e con aroma di frutti rossi ancora ben presente e tannini bene in evidenza.
Molto convincente il Donna Marta Rosso 2012 (50/50) della tenuta Le Mojole, più morbido del precedente, abbiamo anche qui ancora frutti rossi e spezie ma tannini più morbidi, qualche riflesso più purpureo nel colore.
Splendido poi il Colle Calvario 2007 del castello di Grumello, ampio e speziato. Frutti rossi, una nota burrosa, tannini dolci. La signora Kettliz, occhi azzurri vivissimi e portamento da nobildonna, sa il fatto suo quando si tratta di vino.
A contorno e a corollario della degustazione ci sono i salumi e formaggi della zona. Splendidi salami, lardo, coppa e formaggi della Bottega Della Carne di Corna Imagna. Sfiziosissimi i caprini della Via Lattea; infine, i grissini artigianali di Corticelli e il grana padano DOP della Azienda Agricola San Giorgio.