Una visita al Vinitaly richiede una preparazione accurata, una pianificazione dei vini da assaggiare (possibilmente prima bollicine, poi bianchi e poi rossi), degli eventi cui presenziare e conseguentemente degli orari e dei percorsi, secondo una tabella di marcia ben definita. Ovviamente, non ho fatto nulla di tutto questo.
A parziale scusante, o forse aggravante, di tutto ciò era il fatto che ero alla mia prima partecipazione al Vinitaly. Proprio per questo avrei dovuto pianificarlo meglio, ma il fatto è che non sapevo bene che cosa mi sarei trovato di fronte. Si leggevano cose temibili: lunghe code per assaggiare un vino, servizi igienici precari, alcuni padiglioni proprio da evitare.
Così, mi sono ritrovato non con un programma ma con un piano: alcuni punti ben definiti, un obiettivo generale e un po’ di spirito di adattabilità. E pronto alla fuga.
Arrivo in treno, navetta gremita, come da copione, che però parte immediatamente.
Punto di partenza: un evento sul Primitivo, anzi un confronto tra Primitivo, Crljenak Kastelanski e Zinfandel, i quali, si è dimostrato, derivano dallo stesso vitigno, anzi sono lo stesso vitigno.
Organizzato da Radici del Sud (“Stanno facendo un grande lavoro tra Puglia e Campania. Il regista è Pignataro: uno serio” mi dice Cosimo Piovasco di Rondò, e tanto mi basta), propone nove vini (sei PrimitivO, due Crljenak Kastelanski e uno Zinfandel californiano).
Cominciare a questo modo ha un vantaggio: ti costringe a un approccio professionale. Se ti scoli nove bicchieri di quel genere di vini, uno dietro l’altro, alle 11 del mattino, esci strisciando dal primo evento e la giornata è finita.
In terra italiana si parte con i Primitivo del Salento, per poi continuare con quelli di Gioia del Colle e di Manduria; i primi sono coltivati pochi metri sopra il livello del mare, nella pianura salentina, sono vini potenti, con un frutto molto ampio, molto caldi in bocca per via della gradazione alcolica, sapidi. I vini di Gioia del Colle provengono da vigne circa 2-300 m sopra il livello del mare, che quindi godono di maggiori escursioni termiche e il vino riesce a sprigionare alcuni profumi più delicati. I Primitivo di Manduria ripropongono tutta la potenza del Primitivo, con sentori di frutta molto matura, cacao e in un caso anche marmellata di fragole.
I Crljenak Kastelanski sono molto vicini al carattere dei Primitivo italiani. Ci sono sentori di affumicato, speziato, con una bella mineralità. Tutti elementi che avevamo già sentito, soprattutto tra i vini di Gioia del Colle.
Lo Zinfandel è molto meno mediterraneo. Tanto per cominciare, gli altri erano pressoché impenetrabili alla vista mentre questo è molto più trasparente. Anche al naso, i sentori sono quelli di frutta rossa ma più chiara, non ancora così matura. È un 2014, mentre le annate degli altri andavano dal 2011 al 2013. In bocca è caldo ma non caldissimo, sicuramente può sopportare un buon invecchiamento ma non tanto quanto gli altri vini.
Archiviato il Primitivo, passo alla seconda parte del piano: utilizzare Vinitaly per imparare qualcosa, conoscere qualche vino di cui avevo sentito parlare ma che non avevo mai assaggiato. Niente Brunello, Franciacorta o Trentodoc per quest’anno. Sorry.
Comincio con la Campania. “Priazza” Asprinio di Aversa D.O.P. Spumante Metodo Classico, Masseria Campito. Se si chiama Asprinio l’uva ci sarà un motivo: e infatti c’è. L’acidità dell’uva conferisce allo spumante una freschezza notevole. Piacevoli note agrumate di pompelmo si mescolano a fiori e pesca gialla e un leggero sentore di nocciola.
Poi il Taurasi DOCG Riserva di Perrillo, 2006 e 2007. Grande complessità al naso tra sentori di agrumi, fiori, note balsamiche e fruttate. Grande equilibrio ed eleganza in bocca.
Il Molise. “Don Luigi” Molise DOC della cantina Di Maio Norante, altro bel vino con sentori di frutta matura e di sottobosco, legno, vaniglia, tannino fitto e setoso.
Proseguo nel vagabondare e incontro una bizzarra creatura a forma di bottiglia a scacchi bianchi e neri con la coda, poi un cavaliere inesistente che fa la guardia a un Matusalem di vino rosso. Chissà che io abbia trovato Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri, degno compare di Cosimo Piovasco di Rondò. La bottiglia con la coda reclamizza un liquore a base di grappa e latte di bufala. Non oso assaggiarlo e mi defilo.
L’unica mini-coda che faccio è per assaggiare “Extréme” Valle d’Aosta DOC Blanc de Morgex et de la Salle della cantina Cave Mont Blanc. Un altro metodo classico fresco, agrumato, floreale e minerale con almeno 17 mesi sui lieviti. La Cuvée du Prince ha un bouquet più complesso di profumi dove permangono le note floreali ma si aggiungono frutta matura e mela. Fa 48 mesi sui lieviti.
A questo punto sento la necessità di tornare a “casa”, faccio un salto al padiglione del Trentino, dove saluto Mario Pojer e poi Lucia Letrari. Mi avvicino al padiglione dei vini del Concilio per cercare l’amica Lorenza Assante ma non la trovo, poi mi dirigo verso lo stand del MIPAAF dove c’è la degustazione di Pinot Grigio presentata da Albino Armani e condotta da Lorena Lancia, della FISAR Milano, miglior sommelier d’Italia 2016.
Albino presenta le cifre della nuova DOC delle Venezie del Pinot Grigio: il 90% viene esportato nei mercati anglosassoni. La strada è quella dell’innalzamento della qualità della produzione con l’obiettivo anche di rilanciarlo sul mercato interno e di migliorare il posizionamento sul mercato internazionale. Sarà una bella sfida ma credo che sia la strada giusta.
Riesco ad assicurarmi un posto per la degustazione successiva, dal tema “la longevità dei bianchi del Sud”. Si parte dal Falerno del Massico Vite Aminea 2016 della cantina Nugnes, poi si torna indietro negli anni con un blend di Falanghina di tre diverse annate (2013, 2014 e 2015), l’ ”Insomnia” Torre di Pagus; poi l’Etna DOC Bianco “Salisire” 2012 e 2010 di Vivera; il CampoRe Fiano di Avellino DOC 2013 e 2010 di Terredora Di Paolo, infine il Furore Bianco Fiorduva, Costa d’Amalfi DOC di Marisa Cuomo.
In questo viaggio c’è un ventaglio di profumi: dalle note floreali e fruttate, di fiori acacia, di pera, pesca gialla matura a sentori di miele, sentori minerali, salmastri, di pietra focaia per continuare con profumi morbidi e burrosi. Tutti questi vini sono ricchi di profumi e complessi; le sensazioni olfattive si fondono al punto che anche i sommelier più allenati hanno bisogno di tempo e di concentrazione per estrarre e isolare le singole componenti.
L’Italia, riflettono i conduttori, non è posto dove i bianchi siano considerati vini da invecchiamento. Retaggio dei tempi passati, ma dal quale conviene liberarsi al più presto: ne ho avuto la prova.
E i disastri logistici? Non ci sono stati.
Erano mesi che venivo descritto da un Lorem Ipsum e non mi decidevo mai a cambiarlo. Un po’ per pigrizia, ma anche perché mi piaceva che a descrivermi fosse un nonsense poetico, che parlava di un luogo remoto, lontano dalle terre di Vocalia e Consonantia … oggi però sento che è venuto il momento.
Lombardo di nascita e residenza, trentino di origine e di cuore, qualche affetto mi lega anche al Piemonte. Di mestiere faccio altro, il consulente di ICT Management; fino a non molto tempo fa il vino lo ho frequentato solo dall’orlo del bicchiere.
Conosco Cosimo Piovasco di Rondò da quando eravamo bambini; un giorno ho cominciato a scrivere su Trentinowine, per gioco, su suo suggerimento, e per gioco continuo a farlo. Seguo il corso di sommelier della FISAR Milano, divertendomi un sacco.
Più cose conosco sul vino, meno mi illudo di essere un professionista o un esperto. Qualcuno, ogni tanto, dice di leggermi e di apprezzare questo mio tono distaccato; io mi stupisco sempre, sia del fatto che mi leggano, sia che apprezzino. E ne vado fierissimo.
Interessante il confronto del primitivo con vitigni dalla stessa base ampelografica, di cui parlammo recentemente. Non avevo grossi dubbi che l'americano fosse di più facile beva, per accontentare appunto l'utenza americana che credo sia una delle meno raffinate del pianeta (e lo dico pur da "atlantista").
Sono contento che si era presentato anche il Molise, piccola regione da scoprire. In effetti è vero, i bianchi italiani sono considerati, nell'immaginario collettivo, vinelli, non grandi vini. Se qualcosa sta cambiando, bene così.