Si dice che prevenire sia meglio che curare, ma al predittore – di solito – non è riservata l’attenzione che incassa il curatore. Il quale, se va bene, farà poi il miracolo. Spesso, quindi, non servirebbero miracoli per curare una situazione se si desse la dovuta attenzione alla prevenzione. Elementare Watson, come chiosava Sherlock Holmes al suo amico che in una notte all’addiaccio gli chiedeva quali ispirazioni gli desse l’osservazione della volta stellata: che mentre dormivano qualcuno aveva rubato la tenda … rispose. Restare senza tenda, all’addiaccio: ecco il rischio di perdersi in strane elucubrazioni quando c’è un problema di fondo da risolvere. E’ il caso dell’attuale situazione vitivinicola trentina ben evidenziato dal post precedente d’analogo titolo e su cui Trentinowine.info (e ora su Territoriocheresiste.it) si è scritto a lungo e forse invano nel leggere certe opinioni e soprattutto nel registrare i silenzi. Come se non ci fosse chiarezza sul tema di fondo o come se ne fossimo intimiditi. Per cui conviene tornarci su.
Cominciamo dallo scenario, sul quale bisogna convenire, altrimenti la lettura risulterà distorta o sfocata e le soluzioni proposte incongruenti. Lo scenario ha per sfondo la globalizzazione dei mercati d’inizio millennio che ha condizionato grandi e piccoli. Andando per sommi capi, la globalizzazione ha innegabili vantaggi di apertura per tutti, ma ha lo svantaggio di pretendere semplificazioni (per es. poche tipologie di prodotto) e conseguenti aggregazioni per aumentare la massa critica con cui aggredire il mercato. Il caso del vino Trentino è emblematico: un piccolo territorio che riesce a piazzare la sua produzione sui mercati mondiali grazie a un paio di brand che pensano a tutto, dalla culla alla tomba, come si diceva anni fa della sanità inglese.
Dov’è il problema? Il problema nasce quando ti accorgi che questo modello non funziona come sperato perché i dati ti danno torto, nonostante l’affanno dei protagonisti nel sostenere il contrario. I dati e le tabelle possono essere noiosi, talvolta incompleti, sempre da interpretare, ma per questo basteranno un paio di macro considerazioni sotto gli occhi di tutti, se vogliamo prenderne atto. 1. Da tre lustri sono in calo i valori fondiari, ossia quanto vale oggi un ettaro di vigneto trentino: meno della metà di uno analogo in Alto Adige e meno anche di uno analogo nel veronese. Quindici anni fa le maggiori zone di produzione locali avevano quasi raggiunto i valori altoatesini e quotavano il doppio di quelli veronesi. Come dire che oggi lasciamo ai figli un’eredità dimezzata, un patrimonio svaporato. 2. Nello stesso periodo le quotazioni annuali delle uve, al netto delle contingenze, si sono appiattite non riuscendo spesso nemmeno a coprire i costi di produzione. Non così altrove.
Questo perché? Anche qui si possono fare mille congetture, ma semplificando si può convenire che:
A. La nostra puntuale risposta alla globalizzazione è stata quella di concentrare gradualmente l’offerta dei vini in un paio di brand (Cavit e Mezzacorona) e nella spumantistica classica, ridimensionata quella in autoclave, il vero business lo fa solo Ferrari, tant’è che le altre 42 Case assieme non fanno che 3-4 milioni di pezzi.
B. Non è una questione di quantità o qualità dei prodotti: per i vini fermi gli standard si sono mantenuti e spesso migliorati (viticoltori professionali ed enologi competenti), mentre per gli spumanti la qualità è addirittura eccellente, proprio per tutti.
Vediamo allora in che modo questi due aspetti – all’apparenza positivi – sono riusciti a generare la preoccupante situazione dei punti 1 e 2. Teniamo presente anzitutto che il 90% del vigneto trentino è condotto in forma cooperativa, la restante parte essendo divisa fra Vignaioli e Commercianti-Industriali. Nel bene e nel male, quindi, è la Cooperazione a fare la differenza, quella stessa Cooperazione che da qualche anno si dibatte fra riscoperta dei valori fondanti e bisogno di proporsi come moderno, efficace ed efficiente modello di business. Il nodo gordiano è qui: scioglierlo pare difficile e il bisogno di un taglio netto è crescente.
Fuor di metafora, Cavit – come Consorzio delle Cantine Sociali per la commercializzazione dell’imbottigliato e servizi vari – ha via via dovuto assumere carattere industriale per non soccombere all’intraprendenza privata un tempo piuttosto vivace. Un passaggio culturale d’impresa seguito malamente anche da qualche Primo grado che ne ha pagato lo scotto. Cavit oggi è una realtà indiscussa (!) come Mezzacorona, pur seguendo questa un’altra via. Ambedue spinte da logica industriale, ossia condannate a crescere sempre e comunque, accantonando quindi i fondamentali di don Guetti superati dai tempi (?) e immolati sull’altare del business. Qui come in quasi tutto il mondo moderno. Perché quasi? Perché il business non deve necessariamente stare al primo posto, ma può stare benone anche sotto, lasciando l’altare a valori più nobili che comprendono anche il rispetto e lo sviluppo del territorio. Concetto vacuo e ambiguo questo se non lo dissociamo dalla performance dell’uomo che lo può violentare e piegare al proprio volere, piuttosto di perseguire uno sviluppo compatibile seguendo esempi virtuosi.
Su questo terreno l’industria è veloce ed efficiente: ha un management che decide e capitali pronti, l’opposto dei tempi guettiani. Ma allora, perché industria e territorio non c’azzeccano? Perché l’industria prescinde dal territorio, non può avere confini, i confini sono il mondo intero. E quindi non può tutelare un territorio specifico perché lo farebbe a scapito di altri “suoi” territori e men che meno può valorizzarlo, perché sarebbe spesa inutile o addirittura dannosa se pensiamo al beneficio che ne avrebbero piccoli competitori come i Vignaioli. L’industria quindi si concentra su tutela e valorizzazione del proprio brand e se fa qualcosa per il territorio lo spersonalizza e lo appiattisce, magari in perfetta buona fede, ma è così. Per questo, quando ci si accorge, occorre trovare una soluzione. Non rinviare ancora perché il nodo gordiano si stringe sempre più.
Fatta questa sommaria analisi, per stare con Watson, la o le soluzioni da proporre sono postate su TERRITORI: BISOGNO DI AUTONOMIA 3.
Enologo, direttore del Comitato Vitivinicolo Trentino fra gli anni Settanta, Ottanta e Novanta, già membro del CdA Fem e vicepresidente di UDIAS, l’associazione degli studenti di San Michele, ed ex capitolare della Confraternita della Vite e del Vino di Trento. Largo ai giovani.