La spumantistica classica trentina poggia su colline che occupano circa un terzo dell’intera superficie vitata, investita soprattutto dagli idonei Chardonnay e in misura minore da Pinot nero. La seconda caratteristica fondamentale è appunto la quota altimetrica, diciamo dai 250 m slm in su. Con produzioni unitarie ben minori dei fondovalle e costi ben superiori. Per questo serve un’attenzione particolare, sia da parte dei produttori, sia da parte del resto della filiera. Salvo eccezioni, le quotazioni (e i valori fondiari) non ripagano gli sforzi, come evidenziato nei post precedenti, ma i viticoltori di Chardonnay hanno ben poche alternative, restando loro la sola speranza di un aumento sia del numero che del prezzo delle bottiglie. Non si conosce nemmeno il numero di pezzi prodotti annualmente (7-8 milioni di mc?), mentre si vedono prezzi buoni, ma non straordinari, taluni a livello di un buon Prosecco.
Per i non specialisti, diciamo che se si volesse, dai 300/350 mila quintali annui di Chardonnay Trentino si potrebbero ricavare oltre 20 milioni di pezzi. I commerciali delle Case spumantistiche dicono che non ci sono spazi. Balle. Non ci sono spazi se le cose rimangono come sono, a cominciare dalla destinazione (segreta) dello Chardonnay in esubero (prodotto secondo disciplinare al max di 150 q.li/ha), magari declassato per altri bisogni, fino alla commercializzazione delle bottiglie con quel marchio-buffo che è Trentodoc. Costato alla collettività troppi milioni di Euro per non arrivare da nessuna parte, ma con conseguenze nefaste per il comparto e per l’immagine e la notorietà del territorio. Come detto, in rapporto alla qualità eccellente e ai prezzi abbordabili, i dati dovrebbero essere ben migliori, ma nel marketing se sbagli la definizione del prodotto, parti col piede sbagliato (l’altro essendo il brand aziendale) e non ti resta che difendere allo spasimo scelte scellerate che altrove porterebbero a subitanee decapitazioni (virtuali).
Alla spumantistica classica trentina resta pertanto la sola politica di brand, dove primeggia solitario il marchio Ferrari che giustamente investe sul (proprio) valore piuttosto che sui quintali d’uva e sui numeri di bottiglie che rimangono un problema delle Cantine sociali e della quarantina di damigelle d’onore che negli anni sono invecchiate, hanno perso lo smalto di un tempo e non c’è lifting che tenga. Semmai servirebbe il bisturi per affrancarsi dalla Real Casa e ripartire da zero, con una DOCG TRENTO, dimenticando gli investimenti inutili sul marchio commerciale fasullo del Trentodoc.
Uno studio per il passaggio alla DOCG per il Trento in effetti, è recentemente stato commissionato a un’apposita commissione tecnica del Consorzio Vini, assieme allo studio per la DOCG del Teroldego rotaliano, oltre a Marzemino e Vino Santo Trentini. Su questi 4 si vorrebbe poggiare la comunicazione prossima ventura, senza toccare – per carità – altre tipologie varietali della DOC Trentino e men che meno le altre denominazioni d’origine e, quindi, meno che mai la revisione dell’intero sistema vitivinicolo trentino con le ipotesi possibili adombrate nei post precedenti. Come sempre a dare la dritta è Mezzacorona, con il management di Cavit che segue a ruota, permeati da una visione – ad essere buoni – un po’ distorta delle dinamiche possibili e – ad essere maligni – con l’intento diabolico della polpetta avvelenata in grado di far litigare anche i tecnici (quanti sono i liberi di pensiero?) per concludere in un nulla di fatto. Esattamente ciò che serve al pensiero industriale trentinizzato, l’Industria con la I maiuscola essendo ben altro.
Se, infatti, estrapolare dalla DOC Trentino un paio di tipologie da passare alla DOCG comporta capriole problematiche sul piano legislativo, l’effetto sui consumatori sarebbe disorientante e devastante per i produttori. Credo non servano chiarimenti. Anche la spumantistica classica da passare sic et simpliciter dalla DOC alla DOCG senza una revisione complessiva dell’approccio mentale e pratico avrebbe vita breve. Per dirne una, prendiamo le fasce collinari: ve lo immaginate l’incaricato a tirare una riga sulle mappe topografiche, diciamo a cavallo dei 250-300 m slm (con il Campo rotaliano e gli altri fondovalle sotto i 200) per separare le zone d’alta vocazione per il mc dal resto? Oltralpe non ci riuscì la Rivoluzione francese che pure decapitò gli Orleans che i confini delle AOC li avevano imposti e non poté, né volle farlo nemmeno Napoleone! Per la Trento DOCG, quindi, ci vuol ben altro, serve un’intesa serena lungo la filiera e la convinzione che “insieme si può”. Non era questo un motto della cooperazione?
Enologo, direttore del Comitato Vitivinicolo Trentino fra gli anni Settanta, Ottanta e Novanta, già membro del CdA Fem e vicepresidente di UDIAS, l’associazione degli studenti di San Michele, ed ex capitolare della Confraternita della Vite e del Vino di Trento. Largo ai giovani.