E poi ti chiedi come mai l’opinione comune sulla politica, e sui politici, sia prossima ad un giudizio di inutilità. E di nullità. Ma cosa te lo chiedi a fare, ormai.
Leggo la cronaca in punta di penna del dibattito (si fa per dire) sul CETA, l’accordo di libero scambio fra Europa e Canada, andato in onda qualche giorno fa in Comunità di Valle della Vallagarina,
D’accordo, lo sappiamo tutti, che si tratta di uno degli enti più inutili mai inventati in Occidente da qualche secolo a questa parte; ma resta tuttavia un luogo delle istituzioni, dalle quali ci si aspetta almeno qualche briciola di buon senso. Ogni tanto. Almeno ogni tanto.


Dunque, scorrendo la nota stampa istituzionale si scopre che l’aula grigia di via Tommaseo per un giorno, la settimana scorsa, si è svegliata dal consueto e spensierato torpore e ha scoperto l’esistenza del pensiero liberista e dell’economia capitalistica con tutti i suoi inganni, i suoi equivoci e le sue pratiche non sembre per bene. E si è scagliata all’unanimità contro il trattato eurocanadese. Lo ha fatto sposando ad occhi chiusi le posizione di uno dei sindacati padronali più retrivi in circolazione, Coldiretti; più preoccupato per l’impatto che l’abbattimento delle barriere doganali potrebbe avere sull’import di alcuni prodotti agroindustriali (carni e frumento in primis), che galvanizzato per le opportunità riservate all’export italiano e alle sue denominazioni di origine.
Agli slogan terrorizzanti (terroristici?) coniati da Coldiretti – legalizzazione della pirateria alimentare, svendita dei marchi storici del made in italy e via di seguito – in realtà i politici lagarini hanno aggiunto anche un po’ di farina del loro sacco, inanellando alcune topiche magistrali: dalla più grave affermazione secondo cui il Glifosateè un diserbante vietato in Italia” (in realtà l’impiego è regolamentato e sottoposto ad alcune, ma nemmeno tante, limitazioni), alla più veniale convinzione che il Parmigiano Reggiano sia “il formaggio italiano più esportato nel mondo” (il realtà è il Grana Padano a far registrare l’export in valore e in volume più elevato – fonte Ismea 2016).

Sul CETA si potrebbero dire molte cose, soprattutto se analizzato con la lente della critica antagonista. Ma l’unica cosa che non si può dire è che peggiori l’ordinamento di difesa, oggi inesistente sul mercato canadese, delle produzioni agroalimentari europee. Se non altro perché questo accordo blinda circa 250 denominazioni di origine, di cui oltre quaranta italiane. E difatti i consorzi delle D.O. – ma anche gli altri sindacati dell’agricoltura e i consorzi cooperativi – in larghissima maggioranza plaudono al trattato, frutto di un castello di compromessi neoliberisti, d’accordo. Ma che rappresenta pur sempre un passo in avanti rispetto al niente di oggi.
Tuttavia agli stralunati abitatori di via Tommaseo non dev’essere parso vero di poter masticare, almeno per un giorno, parole come biodiversità e territorio da scagliare contro l’ignobile mercimonio del CETA che “non tutela le nostre diversità”. E per di più senza pagare dazio: perché l’Europa è lontana e il Canada ancora di più.
Ohibò, territorio e biodiversità che gran belle parole. Quanto fa fico mettersele in bocca, almeno per un giorno nella vita. E quanto è comodo sputarle a casaccio soprattutto quando sono affari lontani. E degli altri. Al contrario quando gli affari sono i nostri e biodiversità e territorio vengono minacciati nel giardino sotto casa, le cose, e anche le idee, cambiano: le gioiose divise antiglobaliste finiscono in fretta e furia in naftalina e la critica antagonista lascia il posto alla silente acquiescenza al pensiero liberista e alle sue pratiche non sempre per bene: no-global per un giorno e globalisti per l’eternità. Un po’ come quelli che ogni domenica sfilano alle marce pacifiste con i bambini al collo e dal lunedì al sabato contrabbandano armi atomiche.

Chissà se i consiglieri comunitari si sono accorti della radicale trasformazione ampelografica e colturale che ha investito il vigneto lagarino, e trentino, negli ultimi vent’anni, oggi segnato dalla coltura intensiva di Pinot Grigio massa. In culo alla biodiversità e al territorio.
Ah già, i sicari delle Schiave e delle Ambrusche non sono sono distanti come il Canada, sono i nostri dirimpettai. E i loro mandanti sono i globalisti ante litteram di casa nostra.
Chissà se i consiglieri comunitari si sono accorti che qualche giorno fa via Tommaseo ha patrocinato un convegno che è sembrato costruito apposta per offrire alla scienza del genoma editing la testa del vigneto di Marzemino di Isera; per sottoporlo agli esperimenti degli ingegneri della cisgenesi, pronti a costruire il vino bionico del futuro. In culo alla biodiversità e al territorio.
Ah già, i laboratori di cisgenesi non sono così lontani come il Canada, stanno ad uno sputo a nord di Rovereto e ci traffica anche la Provincia di Trento.
Chissà se i consiglieri comunitari si sono accorti che da qualche mese è in atto una manovra restauratrice nei vigneti cooperativi lagarini; che ha già decapitato le teste di un paio winemaker di talento. In culo alla biodiversità e al territorio.
Ah già, ma i padroni della viticoltura lagarina non sono lontani come il Canada, anzi sono così vicini da avere in mano le chiavi della nostra carta di credito.
E allora, su questi temi, che saranno pure terra terra finché si vuole e di sicuro non promanano il fascino demagogico della polemica contro il CETA ma che incidono da vicino sulle competenze della politica locale, è meglio rimettersi in fretta la divisa d’ordinanza, per tornare al silenzio rituale che ingrigisce comodamente l’aula via Tommaseo. Tanto i conti con la coscienza, e con il territorio e la biodiversità, sono già stati regolati indossando per qualche ora il berretto frigio in terra canadase. Mentre in terra trentina è vivamente consigliata la tuba. E il silenzio. Complice.