Apprendo dalla rivista digitale Vino al Vino che il Tribunale di Venezia ha accolto il ricorso del Consorzio della Valpolicella e ha inibito allo strano club delle Famiglie dell’Amarone d’Arte l’utilizzo della parola Amarone al di fuori dello schema consortile, sicché i super fighetti della Valpolicella dovranno adeguarsi e cambiare nome e cognome al loro esclusivissimo cenacolo. Perchè, spiega il giudice molto ragionevolmente – così ragionevolmente che lo capisce anche mia madre che ha fatto la terza elementare all’inizio del secolo scorso -, «una denominazione del vino e il suo territorio, compreso il suo nome, sono patrimonio cormune di tutti i produttori, aderenti o meno al consorzio che tutela quella denominazione. Nessun produttore, o nessuna associazione di produttore, dunque, anche in buona fede, può utilizzare quei valori condivisi in maniera diversa». Punto. E a questo punto acutamente Franco Ziliani, nel suo articolo su Vino al Vino, adombra l’esistenza di un profilo di illegittimità anche sul ristretto circolo dell’Accademia del Barolo.

E allora non resta che attendere un’analoga iniziativa promossa da Consorzio Vini del Trentino, che ha competenza sulla denominazione Trento, nei confronti dell’allegra combriccola del Trentodoc. Perché il territorio è un valore condiviso in cui si misurano politicamente tutti i protagonisti all’interno di un ordine consortile. Con tutti i limiti del caso. Con tutte le imperfezioni, le storture e le deviazioni del caso. Ma non è, e ora lo sancisce anche un tribunale, una merce qualsiasi su cui apporre un brand commerciale.

Ci sarà un giudice a Trento, oltre che a Venezia? #seguirabrindisi