Qualche sera fa, in occasione di una sontuosa cena degli auguri, gli enologi trentini hanno voluto assegnare il loro tradizionale riconoscimento – solitamente riservato a un collega distintosi per l’affermazione delle finalità dell’Associazione – al giornalista professor  Sergio Ferrari che di molti presenti è stato insegnante di Scienze, Patologia, Entomologia e altro all’Istituto Agrario di San Michele.
Il fatto è stato ricordato dai media locali, ma in questa sede è opportuno sottolineare un paio di aspetti che possono essere sfuggiti ai presenti e che ai lettori non sono stati ricordati, ancorché fissino la portata dell’evento. Prima di tutto l’aspetto umano e personale: un Sergio Ferrari realmente commosso ha detto che lui di premi del genere non ne aveva ricevuti mai e che questo degli enologi trentini era il primo, nonostante i decenni di insegnamento e gli altrettanti decenni di puntuale giornalismo agricolo. E si è dato anche le risposte: perché – come docente sono stato piuttosto severo, quasi a scusarsi con qualcuno di quelli presi di mira, e come giornalista – pur nella correttezza dell’informazione – sono spesso critico, ma con fine sempre costruttivo e propositivo. Tanto è bastato in questo mondo, per preferirgli sempre qualcun altro. Gli enologi trentini non erano a corto di candidati nemmeno quest’anno, ma hanno voluto dare un segnale e questo è il secondo aspetto da sottolineare. Un segnale che viene dalla base e che parla anche della preoccupazione per un appiattimento dei valori alti per i quali Sergio Ferrari si è sempre battuto. E lui con una frase latina lo ha rimarcato ben bene: “Rorate Coeli desùper, Et nubes plùant justum.” Che tradotto dal libro di Isaia è “Stillate, cieli, dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia” e che agli orecchi dei tecnici sono suonate come un invito affinché “dalle nubi degli enologi piova una giusta parola fatta … di fatti”. Insomma, facciano sentire la loro voce competente in un contesto – quello vitivinicolo trentino – dove i fatti sono troppo pochi e quei pochi enfatizzati a dismisura.
Mentre per i consuntivi degli imprenditori privati c’è ancora tempo, questa è la stagione delle assemblee per oltre il 90% dei viticoltori sociali e i segni a bilancio sono sempre positivi, spesso a due cifre. Difficile contestare, meglio acclamare stando dalla parte della dirigenza o management che dir si voglia. I manager però, da un po’ d’anni, non sono più gli enologi che dirigono le Cantine sociali, ma un paio di dirigenti abili nel muovere la rete dei primi gradi e di altri fornitori in funzione del business che sono stati chiamati a gestire. Dirigenti condannati alla crescita perpetua, pena la decadenza. Invece succede che licenziati siano degli enologi pur con i bilanci in attivo. Ovviamente non per un questione di titolo di studio, ma per le caratteristiche che hanno assunto le due grandi Cantine che per conservarsi tali devono essere gestite industrialmente. E la mentalità industriale piega gli strumenti a proprio favore perché in cima alla scala dei valori sta il business a qualunque costo e non più il bene (mutualistico) del socio e conseguentemente del territorio. Questi ultimi risultano scaduti al secondo posto, dovendosi accontentare della liquidazione che non è, né deve essere, il tutto.
Invece di girarci tanto intorno, Paolo Mantovan ha chiarito bene il concetto, apparso in prima pagina sul Trentino  sotto l’emblematico titolo Sait, ci siamo: la “borsa” o la vita. La gestione industriale del Consorzio di consumo si può trasferire pari pari al settore vitivinicolo, solo che qui le dinamiche sono diverse, ma il nodo ancora non sciolto resta quello di un conflitto storico fra valori cooperativi e valori industriali. All’ultimo minuto Federcoop si è ricordata del mutualismo come pilastro del sistema e se sistema fosse, non dovrebbero esserci problemi per assorbire qualche decina di esuberi. Invece sono in mano della triplice, storica controparte del modello industriale. Ecco, c’è posto per due modelli, ambedue potenzialmente in grado di perseguire i rispettivi obiettivi e gli enologi – questo l’auspicio di Sergio Ferrari – siano mentori di un sistema che coniughi vignaioli singoli e sociali allo scopo di rilanciare il territorio. Non bastano né i 14, né i 18.000€/ha per l’uva, incrementabili con politiche di territorio, come il doppio dovrà valere un ettaro di vigneto.