Sul Monte Baldo, in Trentino, è arrivata la donna che cura le piante con le tisane: l’achillea, la camomilla, l’ortica e tante altre essenze naturali. Con successo. I suoi vini, vivi e vitali, lo testimoniano. Lei, per tutti e in tutto il mondo, è la Regina del Teroldego, la custode inflessibile della biodiversità rotaliana. Insomma, Elisabetta Foradori. Un’icona internazionale dell’agricoltrra armoniosa e in equilibrio con l’ambiente e con l’uomo, vissuti come un tutt’uno; in otto parole: teoria e prassi della biodinamica applicata alla terra. Il risultato sono una viticoltura e dei vini senza trucco e senza filtro, per parafrasare due espressioni che le sono care.
In realtà, la notizia non è propriamente una news, perché risale quasi ad un anno fa. Ma ho l’impressione che, almeno in ambito locale, non abbia ancora fatto il giro giusto. Me ne sono reso conto l’altro giorno mentre raccontavo agli amici dell’ultima creatura forgiata dalla sensibilità e dalla creatività di questa donna e dei suoi figli Emilio e Theo: Lezèr, il vino della tempesta. Un rosé nato dalle uve di Teroldego macellate dalla grandinata d’agosto dello scorso anno.
Lo scorso anno Elisabetta Foradori acquistò due masi immersi in uno dei più bei paesaggi terrazzati del Trentino, la valletta trincerata di falesie che dal Monte Baldo degrada fino all’Adige, fra l’abitato di Crosano, nel comune di Brentonico, e il paese di Chizzola, ultimo fronte a nord della città di Ala. Un paesaggio incantevole e fecondo grazie all’esposizione favorevole e allo scheletro baldense, dove già da parecchi anni si è insediato anche il gruppo Lunelli: da qui nascono le basi Chardonnay per i più prestigiosi metodo classico Ferrari. Poco più in là, sull’altro versante, anche lo splendido vigneto di Chardonnay di Albino Armani 1607, destinato ad implementare la produzione aziendale di metodo classico TRENTO: insuperato, per ora e per me, il suo Pas dosé Clé. Un microcosmo di pregevolezze ambientali e territoriali, sino ad oggi egemonizzate in regime di esclusività dalla cooperazione in orbita Cavit. L’insediamento di Armani, Foradori, Lunelli e forse presto di altri vigneron, però nel medio termine potrebbe suggerire un punto di rottura di questo vetusto e stringente monopolio della terra e della cultura della terra.
Ma torniamo a Elisabetta Foradori. La regina del Teroldego scelse, un anno fa, questo piccolo eden immaginando all’orizzonte una fattoria promiscua, come era nell’economia dei masi della tradizione, un’economia chiusa che si reggeva su un mix equilibrato di zootecnia, pascolo, orticoltura e, chiaramente, viticoltura a pergola.
A distanza di pochi mesi ora il progetto è in fieri. E comincerà ad assumere concretezza, anche produttiva, nei prossimi anni.
Una prassi della terra, quella di Elisabetta Foradori, sostenuta da una solida teoria di rigorosa impronta biodinamica e antroposofica, che lei è già riuscita a portare alle massime espressioni nel giardino rotaliano. A questa visione del mondo, dell’uomo e dell’agricoltura, si accostò fin da giovanissima, assorbendo la weltanschauung goethiana della natura (e tutto quello che implica, ma ora non c’è spazio per dilungarsi) portata in Italia e in Trentino negli anni Settanta del secolo scorso da Rainer Zierock; il professore tedesco, indimenticato (dai suoi studenti) insegnante dell’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, che fu anche suo marito e padre dei sui figli, Emilio, Theo Myrtha. Un insigne maestro di scienza, ma anche di creatività e d’arte (sua per esempio è idea della poetica etichetta originaria del BLAUWAL Cesconi), una figura poliedrica e monumentale di cui ci ha fatto dono il secolo breve. Come lui ci ha donato vini irripetibili e mitologici, frutto di uno sperimentalismo spregiudicato ed estremo, cito il Dolomytos e il Phineas, densi di sapere enologico e di profondità esoterica.
Il percorso attraverso la biodinamica della regina del Teroldego, che nella vigna e in cantina ci era nata, cominciò così e ora approda sul monte Baldo, come una magia delle fate che regalano una grande e unica occasione. Una presenza e un’esperienza che potrebbero cambiare le sorti di questo pezzo di terra, oggi negletta e marginale, che fa da cerniera fra le regioni nordiche e il paesaggio mediterraneo del Garda. La visione e la prassi della terra ispirate ad un’idea di armonia primordiale e la ricerca continua dell’equilibrio di cui Elisabetta Foradori è sacerdotessa contadina, potrebbero, se assorbite e condivise dal contesto, far scattare la scintilla di un nuovo rinascimento.
Speriamo bene.
Ma intanto: benvenuta sul Baldo, Elisabetta. Benvenuta da queste parti.
[suggerisco alcune video interviste per cominciare a fare conoscenza]
È lo pseudonimo collettivo con cui fin dall’inizio sono stati firmati la maggior parte dei post più trucidi e succulenti di Territoriocheresiste. Il nome è un omaggio al protagonista del Barone rampante, il grande capolavoro di Italo Calvino. Cosimo Piovasco, passa tutta la sua vita su un albero per ribellione contro il padre. Da lì, però, guadagna la giusta distanza per osservare e capire la vita e il mondo che scorrono sotto di lui.
Nonostante tutto io i biodinamici li invidio, come invidio la convinzione che hanno nelle loro idee e la forza con cui le difendono. Anche se io la penso in modo completamente diverso e spesso quando si parla di questi con gli amici ci si fa grandi risate, pensando a cose anacronistiche (a parer nostro) come i loro riti, le preparazioni, il cornoletame ed altre cose. E’ un po come la fede, io invidio chi la ha, perchè quando tutto va male è qualcosa che aiuta il credente, gli da forza e gli permette di sperare che possa servire. Essere troppo razionali alle volte fa male.
Personalmente anche io mi sento distante da questo mondo. Però quando le cose funzionano, credo sia utile prenderne atto. E in agricoltura queste tecniche funzionano almeno rispetto al versante qualitativo. Uno studio recente dell’ Università di Geisenheim pubblicato sulla rivista Millevigne mette a confronto su scala decennale i convenzionali, bio e biodinamici. E ne conclude che anche l’approccio antroposofico funziona. Perché funziona e come funziona….mah…magari lo scopriremo fra cent’anni.
Intanto ci beviamo il Granato e tutto il resto che sono pure buoni…
a mi me par ‘na setta!
e spess l’è pù el pever dela minestra.
però…..
setta o non setta…. basta che funzioni. e che il vino (in questo caso) sia buono. o no?
giusto!
però ,da sempre mi chiedo se questo loro slancio è sostenibile perchè sono in pochissimi a condividerlo,o
se,ipoteticamente, dovesse diventare un fenomeno di massa,sarebbero felici di avere un’agricoltura sostenibile,oppure sarebbero rammaricati di realizzare inevitabilmente dei guadagni molto inferiori.
in pratica sono dei profeti o degli opportunisti?
bo!
Mah, conosco molti biodinamici e non mi sembra di avvertire in loro un’attitudine all’opportunismo. Mi sembra si mettano iù a rischio dei viticoltori tradizionali. Dopodiché non credo che questa modalità possa sostituire il vino tecnico, insomma non penso possa diventare, il loro, un fenomeno di massa.
E questo senza dare giudizi di valore sul meglio o il peggio. Sono due prodotti differenti. Che si rivolgono a modalità di consumo differente. Magari anche ad una quota di consumatori che si sovrappongono, ma in tempo e in situazioni differenti. In Italia (dati aggiornati al 2013) il 92 % dei consumi off è sotto i 5 euro e il 65 % sotto i 3 euro. Quindi…mi pare che questi vini siano davvero destinati ad una nicchia e non siano nemmeno in competizione con gli altri.
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