Ieri sera sul terrazzo di Cosimo, e insieme a lui, ho bevuto un vino buono. Dalla cucina, la vecchia madre del barone rampante del vino trentino, una donna di schietta razza contadina con 95 anni alle spalle e una prontezza mentale da mettere in fila una schiera di ventenni, ci istruiva con ironica sapienza, e soprattutto esperienza, sulle virtù del vino contadino e sugli inganni del vino tecnico. Sopra di noi il cielo si stava addensando di nero. Ma accanto a noi, finalmente in pace con la vita, avevamo un vino buono. Per fortuna.
Il bicchiere arrivava da una bottiglia, ultima creatura, dell’Azienda Agricola Foradori: il LEZÈR (12,5% vol), un Teroldego nato dalla disgrazia: la tempesta. Nel 2017 un’improvvisa e violenta grandinata si abbatté sui vigneti rotaliani; anche su quelli di Teroldego da cui l’amica Elisabetta Foradori produce il Granato: l’annata, così come era stata concepita nel calendario aziendale, andò perduta. Con quel poco, e malridotto, che era rimasto, dimostrando rara lungimiranza e grande abilità enologica, la regina del Teroldego e i suoi figli, Emiliano e Theo Zierock, hanno affrontato comunque la sfida della vinificazione. Emilio, tempo fa, mi spiegò i vari passaggi sperimentati seguiti per migliorare e conservare il frutto della spremitura e della fermentazione: l’acciaio, il cemento, il legno, l’anfora, le brevi permanenze sulle bucce. E, comunque, sempre l’approccio biodinamico, anima della vinificazione naturale.
Questo è il LEZÈR, cioè leggero, buono da bere quando si ha sete.
Il colore è rubino tenue con la caratteristica opacità dei vini non filtrati. Il naso è pulito, leggeri profumi di fragoline, di sottobosco e di polvere. Al palato rivela la sua natura di Teroldego: leggero, certo, ma con una significativa acidità e tenui note speziate e di caffè, e accenni di frutta rossa estiva e rinfrescante, che lo rendono intrigante e invitante a una beva disinvolta. E con un allungo, che sul finale diventa lievemente ammandorlato, che non ti aspetteresti da un prodotto di questa categoria. Insomma: un bicchiere di vino buono. Da bere in compagnia, di amici o di qualcosa di lezèr… ma neanche tanto: pane e salame o pane e mortadella potrebbero essere la morte sua.
L’etichetta frontale raffigura una macchina agricola stilizzata ed è ricavata da una litografia prodotta da un artista sconosciuto ma conservata nell’archivio dello scomparso e compianto professor Rainer Zierock. Poi la citazione presente nella retro etichetta, questa volta firmata da Zierock, che par persino profetica, in tempi come questi: “L’opera d’arte più grande è la pace”.
Da ogni vicenda mi sforzo, con i miei limiti, di imparare qualcosa. Di questo bicchiere mi ricorderò per sempre che non si spreca, non si deve sprecare, ciò che è buono. E che un’opportunità esiste sempre. Bisogna solo avere gli occhi per vederla e il coraggio per coglierla.
..E tirato dalla mia bramosa voglia,
vago di veder la gran commistione
delle varie e strane forme
fatte dalla artifiziosa natura,
raggiratomi alquanto in fra gli ombrosi scogli,
…pervenni alll’entrata di una gran caverna,
dinanzi alla quale restando alquanto stupefatto
e ignorante di tal cosa,
piegato le mie rene in arco,
e ferma la stanca mano sopra il ginocchio,
con la destra mi feci tenebra
alle abbassate e chiuse ciglia.
E spesso piegandomi in qua e là
per vedere dentro vi discernessi alcuna cosa,
questo vietatomi per la gran oscurità
che là entro era e stato alquanto,
subito si destarono in me due cose:
paura e desiderio,
paura per la minacciosa oscura spelonca,
desiderio per vedere se li entro
fussi alcuna miracolosa cosa.
(Leonardo da Vinci)
Ti ringrazio, caro Conte. In reatà sarebbe bello farlo….mi piacerebbe….ma bisognerebbe troveare un editorei disposto a ffinanzaire l’operazione. Non credo che un quotidiano generalista come L’Adige possa permettersi di sciroppare decine di storie vitivinicole… però magari provo a chiedere. Intanto comunque ancora grazie!
Economia (e ora pare anche dialetto e vino) sono come una fisarmonica : ognuno la suona come gli pare.
(Luigi Einaudi)
Grazie per questa indicazione bibliografica caro Conte… da le braghe ..onte… non conoscevo questo testo..ora lo ho scaricato.
Anche dalle mie parti … la dizione in uso è: Lizer (per dire leggero), per questo ho chiesto spiegazioni.. e mi si dice che in rotaliana….invece si usa la forma Lezèr …; Non ho motivo per dubitarne
Invece a proposito della mia mamma, questa te la devo raccontare. Perché la vecchia genitrice ormai secolare, quella bottiglia la ha proprio asfaltata e le è bastata una superficiale analisi visiva.
Ti racconto la situazione:
Matteo viene a trovarmi dopo cena e porta con sé una bottiglia di Lezèr. La poggia sulla tavola, dove mamma stava finendo di cenare. Lei le dà una rapida occhiata, nota subito il vetro trasparente. Ed esclama: “Ma putei, se sicuri che ‘l sia bom quel vim… perché na volta i diseva che ‘l vim bom bisogneva meterlo nel vedro scur, no ‘n quel bianc. È cambia moda…?”.
Provo a spiegarle che è un vino leggero…e da bere subito quindi non ha bisogno della protezione del vetro scuro. Ma è inutile, non si lascia convincere. Afferra la la bottiglia ed esamina il colore (un rubino leggero e opaco perché il vino non è filtrato)… e arriva la sentenza definitiva: “El ga ‘n color da vim picol… se sicuri che sto vim nol vegna da Mori, ‘ndove i fa ‘l vim co l’acqua (il riferimento è al recente scandalo della Mori Colli Zugna). No perché ormai chi no se sa pu de chi fidarse…”.
Insomma la sentenza di Lidia è stata lapidaria. E senza appello.
Di sicuro non è stata lizera!