Sono schiumanti di rabbia le pendici vitate del Monte Baldo, nel basso Trentino. È rabbia contadina. È rustica incazzatura. L’uva, tanta, sta marcendo sui filari. Le giornate piovose dello scorso fine settimana hanno seminato un marciume pestilenziale nei campi di Mueller e Chardonnay non ancora vendemmiati.
Qualcuno azzarda l’ipotesi del danno e dell’umiliazione: il 10 / 15 % delle uve baldensi, fra Besagno, Castione, Sano, Crosano e Cazzano, andrà perduta. È già andata perduta: in pochi giorni i vigneti si sono tinti di un offensivo color caffellatte. Una vendemmia horror, che lascerà in campo qualcosa come 1000 / 1500 quintali di frutta. Una perdita economica che potrebbe aggirarsi attorno ai 150 mila euro. Secondo le stime dei contadini della zona. Delusi. Arrabbiati. Incazzati.
Ma perché l’uva, già matura, o prossima alla maturità, lo scorso fine settimana, con previsione meteo che da giorni anticipavano l’ondata di maltempo e ferale umidità, non era ancora stata vendemmiata? La domanda, e le risposte, rimbalzano da giorni fra le pergole appestate. Chi ha ritardato sino a questo punto le operazioni vendemmiali, lo ha fatto solo per inesperienza, per insipienza o per ragionato calcolo? E a cosa serve l’assistenza tecnica e agronomica teleguidata dalle centrali industriali di Trento? A cosa serve la digitalizzazione delle campagne con sistemi di controllo informatico millimetrico e capillare sulla proprietà contadina, come il PICA di Cavit? A cosa serve un avanzato sistema pubblico di previsione meteorologica? A cosa serve tutto questo? Ora se lo chiedono in tanti sulle pendici del Baldo, umiliate ancora una volta dalla violenza di classe esercitata con dolosa leggerezza dagli incontrastati manager del vino industriale.
La condizione che stanno vivendo i contadini baldensi assomiglia ad un pauroso paradosso. È un pauroso paradosso. È il paradosso di chi produce materia prima pregiata in un contesto congiunturale di sovrapproduzione generalizzata, come quella che si registra quest’anno, e nella cornice di un’agricoltura industriale e mercificata. È il paradosso di una produzione di pregio orfana di un progetto territoriale solido e protettivo. Spogliata di qualsiasi baluardo che la difenda dalla concorrenza dei grandi volumi creati a basso costo nelle pianure. Una contraddizione pericolosa e vessatoria che forse fino a qualche anno fa veniva calmierata attraverso lo strumento equivoco del vino di carta. Un’arma ora spuntata e, per fortuna e speriamo, non più utilizzabile.
Un vecchio contadino, ieri, mentre osservava con le lacrime agli occhi il suo vigneto dal colore fangoso, trovava le parole giuste e la chiave corretta per chiudere il cerchio della rabbia contadina e della rustica incazzatura. Evocando uno scenario ottocentesco segnato dal dominio padronale: «Sembra di essere tornati indietro di 50, 100 anni: quando i commercianti al servizio degli imbottigliatori tiravano il collo ai nostri nonni e ai nostri padri. Pensavamo che quel mondo fosse finito. Ma non è così: oggi, loro, i padroni sono tornati e ti dicono “la tua uva lasciala pure marcire, noi non te la comperiamo” E così noi siamo tornati mezzadri. Al servizio dei signori del vino».
È lo pseudonimo collettivo con cui fin dall’inizio sono stati firmati la maggior parte dei post più trucidi e succulenti di Territoriocheresiste. Il nome è un omaggio al protagonista del Barone rampante, il grande capolavoro di Italo Calvino. Cosimo Piovasco, passa tutta la sua vita su un albero per ribellione contro il padre. Da lì, però, guadagna la giusta distanza per osservare e capire la vita e il mondo che scorrono sotto di lui.
Chi è causa del suo mal, pianga se stesso!