Se lo scenario fosse quello adombrato qui e se si volesse evitare al Trentino vitivinicolo la sua riduzione unicamente a territorio di supporto ai bisogni dei tre oligopoli esistenti, bisognerebbe – come sempre – concordare sui fondamentali, quelli cioè che reggono un qualsiasi piano programmatico: avere una visione, accollarsi una missione, condividere l’analisi di situazione e prospettive, fissare degli obiettivi, individuare le strategie per raggiungerli, attuare le azioni opportune e, infine, controllare i costi e verificare i risultati. Altrimenti si naviga a vista sperando nella buona sorte.
Sono vent’anni che in Trentino non si guarda ai fondamentali, o meglio, li hanno tenuti presenti solo in tre, gli oligopoli, appunto. Mezzacorona che è stata la testa pensante, Cavit che di riflesso e a distanza di tempo ha seguito la linea e Ferrari che non è ancora percepita come oligopolio perché il suo core business è nel segmento spumanti, ma che a tutti gli effetti è monopolizzante del pensiero spumantistico trentino. I tre hanno il loro dio nel brand aziendale. Punto.
Il primo e il terzo oligopolio hanno consolidato il loro ruolo, Cavit lo sta facendo ed è qui che conviene accendere i riflettori. Sia perché il Consorzio di secondo grado è il più importante territorialmente, sia perché rimane quello che – impostato diversamente – consentirebbe un rilancio a tutto tondo di una vitivinicoltura territoriale moderna salvaguardando la sua esigenza industriale. Dove il “moderna” non si riferisce alla “mamma che tutto provvede” con efficienza ed efficacia, ma all’opposto, si riferisce alla riscoperta della vocazione di un territorio parcellizzato di fondivalle, di colina e montagna che non può rischiare tutte le sue carte sul tavolo della globalizzazione. Alcune sì, oggi molte, ma in prospettiva non tutte per carità.
Riscoprire una vocazione significa rendersi conto che la natura ha plasmato quest’ambiente in un certo modo, difficile da coltivare, ma potenzialmente in grado di assicurare soddisfazioni che nessuna globalizzazione potrà mai garantire. Alto Adige docet.
Il fatto è che laddove si decide la linea da seguire, questa vocazione non è considerata o è considerata fastidiosa, un intralcio al progetto.
Gli eccellenti uomini di Cavit stravedono per l’azienda, la vogliono sempre più grande, più dominante, così da assicurare a tutti la giusta remunerazione senza doversi occupare dei nodi che si creano nella rete delle associate. Nodi che vanno sciolti per rendere più semplice e immediata la filiera. Ecco perché all’assistenza tecnica in campagna potranno seguire la centrale unica per gli acquisti e, infine la commercializzazione centralizzata. Insomma un moloch.
Questo per dire che è molto improbabile che da Cavit – da questa Cavit – nasca un ripensamento virtuoso in funzione territoriale. In poche parole: un’industria è condannata a crescere di continuo, altrimenti chiude e non si può permettere “distrazioni” costose in tempo e denaro per progetti diversi dal Piano aziendale. I “numeri” cui è obbligata si riflettono nei prezzi dei suoi vini, anche di qualità.
Se le cose stanno così, come per il momento non è il caso di tirare in ballo né Mezzacorona, né Ferrari, anche Cavit potrebbe restare nel suo brodo a condizione che gli scontenti di questa situazione si diano una mossa ed elaborino un progetto nuovo. Magari integrativo dell’esistente e non necessariamente in contrapposizione.
Chi sono gli scontenti? In generale tutti coloro che ancora pensano con la propria testa rinunciando al maître à penser, Viticoltori sociali e Vignaioli singoli compresi, poi Organizzazioni ed Enti che fin qui non si sono posti il problema. Colpevolmente, perché il problema c’è ed è demenziale scansarlo o sottovalutarlo.
A ottobre 2018 abbiamo un Lutterotti rimosso da Cavit, quindi più libero (… di Libera, vien da dire) e un assessore all’Agricoltura provinciale ancora da individuare. Dipenderà molto da costoro, ma anche da una rinnovata sensibilità al tema degli Enti e delle Organizzazioni che hanno o dovrebbero avere un ruolo d’indirizzo e sostegno del settore.
Per finirla qui, il tema – restando al bisogno di rilancio territoriale – passa attraverso una diversa impostazione del sistema: non solo tre oligopoli, ma una più nutrita messe di etichettatori che testimonino della Qualità che questo territorio può e deve esprimere.
L’aumento del numero di aziende che si mettono in gioco per rilanciare le denominazioni territoriali è conditio sine qua non. Servono consapevolezza, rifinanziamento degli incentivi per nuove imprese e un Piano.
Un bel tema per la prossima Giunta provinciale, per la nuova presidenza di Federcoop, per il Consorzio Vini e per i Vignaioli, ma anche per FEM, per CCIAA, per i Sindacati, ecc.
Non ultimi, anzi, per noi consumatori che sulla carta dei vini del ristorante piuttosto che sullo scaffale dell’enoteca vorremmo leggere “Trentino” con ricca tavolozza d’offerta, invece di dover cercare qua e là la referenza locale confusa magari sotto il cappello Alto Adige. Per non morire del tutto anonimi.
Enologo, direttore del Comitato Vitivinicolo Trentino fra gli anni Settanta, Ottanta e Novanta, già membro del CdA Fem e vicepresidente di UDIAS, l’associazione degli studenti di San Michele, ed ex capitolare della Confraternita della Vite e del Vino di Trento. Largo ai giovani.
Finché nella valley of the vineyards si pensa ad organizzare solo festival dell’economia o dello sport cosa pretendiamo?
Siamo abituati a guardare all’Alto Adige come esempio virtuoso, ebbene credo che presto dovremo fare i conti anche con un Veneto molto attivo, sono molte infatti le iniziative che intraprende e certamente ci darà filo da torcere ma sia chiaro: ci sta bene!
Ecco un piccolo esempio dell’attività veneta: https://www.youtube.com/watch?v=LApvDyDkgMI&feature=em-uploademail