Ad usum dell’amico Alessandro Ghezzer che mi rimprovera un eccesso di ermetismo ogniqualvolta scrivo di cooperazione, provo a comporre un breve bignamino partigiano sull’attualità recente, e un poco meno recente, di questo grande movimento che coinvolge quasi la metà della popolazione trentina. E che, nel bene e nel male, rappresenta l’ossatura economica e sociale del Trentino: 500 società, attive in tutti i settori produttivi, e una base sociale costituita da circa 280.000 persone.

Dunque, fino al 2015 la Federazione, l’organo che fa – che dovrebbe fare – da raccordo fra tutte le componenti e tutti i settori, è retta con lungimiranza e con astuzia, con furbizia e con autorevolezza, con il pugno di ferro e con bonomia, con il bastone e con la carota da Diego Schelfi. I nemici lo chiamano il Papa Nero, gli amici SuperDiego. Il suo regno su via Segantini è cominciato all’inizio degli anni Duemila e durerà ininterrottamente per tre lustri.

In politica sono gli anni dominati da Lorenzo Dellai, con il quale, fra l’altro, Diego in gioventù era stato in affari: insieme sono stati i protagonisti della prima informatizzazione del Trentino; hanno venduto computer a tutti: Comuni, Casse Rurali, Famiglie cooperative. In quegli anni è difficile trovare in giro un calcolatore che non sia marchiato Delta Informatica. E Delta Informatica, una cooperativa, sono loro due: Lorenzo e Diego, il Principe Vescovo e il Papa Nero. I due sono due cavalli di razza. Sono due leader. Sono le due facce della stessa medaglia: il Potere. E per quindici anni se lo spartiscono. Incontrastati. Con tante luci e, almeno, altrettante ombre.

Il Principe Lorenzo si trova più a suo agio con la politica. SuperDiego con l’economia. Della politica sappiamo. E sappiamo cosa sia stato il dellaismo. Per la cooperazione sono anni di grandi trasformazioni. La Coop trentina si globalizza, soprattutto in alcuni settori: il Credito, il Consumo, l’Agricoltura. Diventa una macchina da guerra sempre più forte e sempre più capace si far girare soldi e lavoro. E consenso egemonico da dirottare sul Principe Vescovo e sul suo entourage territoriale. La cooperazione con SuperDiego, però, cambia pelle, subisce una mutazione genetica: l’impresa cooperativa nel mentre si adegua agli standard industriali internazionalizzati, ristruttura, sul modello capitalistico, anche le relazioni interne; il potere si verticalizza e si concentra nelle posizioni apicali tecnocratiche, affievolendo, fino ad annichilirlo, il potere di condizionamento della base sociale sulle decisioni della dirigenza. Insomma cambia, nel senso che si rovescia, il paradigma tradizionale della relazione fra il socio e la sua impresa cooperativa.

Schelfi lascia definitivamente nel 2015. In realtà se ne sarebbe dovuto andare via nel 2012, ad esaurimento dei tre mandati triennali. Ma in quel momento il movimento è orfano di eredi, Schelfi non ha discepoli alla sua altezza. E una classe dirigente alternativa non si vede ancora all’orizzonte. E quindi si arriva al quarto mandato in deroga. Nel 2015, tuttavia, la situazione si ripresenta quasi in formato fotocopia; il vuoto di potere in seno alla Federazione è palpabile: manca un leader capace di prendere in mano il movimento. Un quinto mandato per il Papa Nero, in deroga alla deroga, questa volta però non è immaginabile a meno di sfidare il senso del ridicolo e a meno di denunciare pubblicamente la crisi endogena della Federazione. Diego Schelfi, quindi, ringrazia e se ne va. Ne segue un triennio di grande instabilità; ai piani più alti di via Segantini si alternano due presidenti: Giorgio Fracalossi, che dopo un solo anno fa armi e bagagli e sparisce dal radar, e Mauro Fezzi che in un infinito grigiore traghetta il movimento fino al giugno 2018.

Sono tre anni segnati pesantemente da un deficit di leadership. Ma come capita sempre nelle stagioni dominate dal vuoto di potere, chi era forte diventa ancora più forte. Negli stessi anni, a Roma, si discute, e si approva, la riforma del Credito cooperativo. A differenza di quanto accade in Alto Adige, a cui viene concesso uno status di autonomia e il diritto di fare da sé, il sistema delle Casse Rurali trentine viene rovesciato dentro il grande calderone italiano. Ma al Credito trentino, grazie al lavoro parlamentare dell’autonomista Franco Panizza, almeno viene assegnato un ruolo guida,  una sorta di primato sul comparto nazionale. Si parlerà, infatti, di Credito cooperativo “a trazione trentina”. È una vera e propria rivoluzione che rafforza ancora di più il peso del Credito in via Segantini.

Nei tre anni dominati dal grigiore, dal caos e dall’assenza di leadership, tuttavia cominciano ad emergere con più forza le spinte dal basso: è una cooperazione di base che piano piano immagina realisticamente di riuscire a scalare i vertici del movimento, sognando una specie di ritorno alle origini e all’autenticità guettiana. Nel 2015 ci aveva provato il professor Geremia Gios. Ma senza riuscirci. A metà del 2018 invece pare che i tempi siano maturi: un’ondata di entusiasmo porta ai vertici della Federazione Marina Mattarei. La chiamano Marina la Rossa o anche Pasionaria della Valle di Sole: è l’espressione plastica e politica della cooperazione di base, concreta ma ancora carica di idealità; la Pasionaria Rossa, nel senso dei capelli, è la presidente di quel popolo cooperativo che non si è lasciato umiliare dai tecnocrati globalisti e mercantilisti che da alcuni anni dominano come padroni ottocenteschi su via Segantini. È un popolo di cooperatori che non si è mai piegato del tutto e che ora prova a rialzarsi. E ad alzare la voce.

L’elezione di Mattarei, inevitabilmente, manda all’aria i vecchi equilibri. Quelli che si erano stabilizzati e sedimentati durante i quattro mandati di SuperDiego e nel grigiore dei tre anni successivi. Ne scardina la sostanza e la forma. La Pasionaria che arriva dalle Famiglie Cooperative della Valle di Sole, comincia a far paura. Paura a chi? A chi oramai è abituato a considerare la cooperazione come uno strumento capitalistico alla stessa stregua di una SpA; ma soprattutto come un affare privato appannaggio dell’establishment e dei boiardi che comandano senza fare prigionieri sui settori più rampanti e più remunerativi, quello del Credito, in primis, ma anche quello dell’Agricoltura industriale e del Consumo di secondo grado (Sait).

I nemici che l’attendono al varco, insomma, sono tanti, potenti ma soprattutto disposti a tutto pur di liberarsi dall’incubo solandro. Lei, che non è una donna facile da manovrare, pur fra qualche passo falso e qualche ingenuità (per esempio il ritocco della sua indennità), va avanti dritta. Il suo primo atto politico è deflagrante, una specie di dichiarazione di guerra: trattiene per sé le deleghe di rappresentanza del Credito in seno a Federcasse. Fino a pochi giorni prima, quello era stato il feudo incontrastato del vecchio Papa Nero, apparentemente uscito di scena nel 2015, ma ancora in gran forma fra i bancari cooperativi romani. La Rossa Marina, tuttavia di lui non si fida e non gli rinnova la sinecura. È il primo atto di una guerra dei nervi che si farà sempre più dura fra lei e i vecchi e nuovi potentati, che intanto fra di loro hanno saldato un’alleanza di acciaio, con l’obiettivo di intrappolare e immobilizzare la neo presidente, tagliandole l’erba da sotto i piedi e tutto intorno. Per depotenziarne lo slancio e isolarla dal popolo che solo poche settimane prima la aveva portata al sesto piano di via Segantini. 

Al ritiro delle deleghe a Schelfi, l’asse conservatore che traffica, nel senso che costruisce alleanze più o meno trasparenti, per restaurare la sua posizione di dominio, reagisce con uno schiaffo da far perdere i sensi: Cassa Centrale Banca lascia la Federazione. Abbandona via Segantini. Non ne riconosce più il ruolo guida e di coordinamento. Siamo a settembre. A ottobre Marina Mattarei viene gambizzata per la seconda volta e questa volta ancora più seriamente. Un agguato per interposta persona, da cui ne uscirà politicamente azzoppata: il CdA di Cavit non rinnova il mandato al presidente uscente, Bruno Lutterotti. Fedelissimo della Pasionaria e suo vicepresidente vicario in via Segantini. La strategia della tensione, che ha l’obiettivo di incrinare il fragile equilibrio in seno al Consiglio di Amministrazione e al Comitato esecutivo, ormai è nel pieno della sua potenza destabilizzatrice. E devastatrice.

E così arriviamo ai fatti di questi giorni. Ad inizio anno CCB – Cassa Centrale Banca diventa operativa e mette in agenda l’acquisto in blocco degli immobili di via Segantini. Negli stessi giorni la presidente apre un tavolo di confronto con la giunta Fugatti sul tema dei lavoratori fragili (Progettone) e delle cooperative che lavorano nel settore dell’accoglienza. Un’apertura al dialogo con la politica di governo  che le costa cara: le cooperative del settore sociale le rimproverano subito di non aver alzato le barricate  contro l’odiata destra fascioleghista. Si accodano i sindacati e quel che resta della politica di sinistra. Il pretesto è perfetto: un alibi coi fiocchi. E, diciamolo pure, un mezzo scivolone che forse Marina la Rossa avrebbe potuto evitarsi. Forse.

A questo punto il nucleo originario dei destabilizzatori, i vecchi e i nuovi poteri bancari, agrari e tecnocratici, riesce a coagulare attorno a sé anche il mondo apparentemente più progressista della cooperazione. E la Pasionaria si ritrova sempre più sola: tutto intorno ha il deserto. Le fanno capire che l’offensiva potrebbe spingersi ancora più in là: una mozione di sfiducia che la costringerebbe a dimettersi. Anche se ragionevolmente nessuno ci crede: alzare il tiro ed eccitare la tensione sarebbe una mossa che potrebbe trasformarsi in un cortocircuito fatale; significherebbe mettere in chiaro l’obiettivo vero della campagna di destabilizzazione: la restaurazione. E significherebbe anche gettare la Federazione nel caos, a otto mesi dagli Stati Generali: una forzatura che nessuno capirebbe e che quindi sarebbe una sconfitta per tutti. Però l’avvertimento funziona e raggiunge il suo scopo intimidatorio: Marina Mattarei, ormai sola nel palazzo, non può fare altro che lasciarsi decapitare e accettare le dimissioni in blocco dei suoi vice presidenti e del suo Comitato esecutivo.

È un’opzione quasi suicidiaria perché rimette tutto in gioco. E a dare le carte, ora, non è più lei ma sono i suoi avversari. Anche chi non riesce a distinguere un lampadario da una bottiglia di vino, capirà che al termine di questo rimescolamento di carte – e di poteri – gli equilibri non saranno più quelli usciti dalla primavera cooperativa dello scorso giugno. E che la bilancia penderà da un’altra parte: quella della conservazione e della restaurazione. 

Spero, caro Alessandro, che questo breve bignami partigiano possa esserti di aiuto per vederci più chiaro nel torbido in cui stanno annegando i paraggi, e i piani alti, di via Segantini.