È la vittoria dei bastardi, non quei bastardi che spodestano i padri e i nonni, non quei nipoti detronizzatori, alla Gian Galeazzo Visconti per intenderci. Sono dei bastardi che si espandono e colonizzano e viaggiano con gli uomini e le genti; ne plasmano a volte, a volte ne accompagnano la storia.
Sono i diecimila vitigni presenti in Europa, che alla fine discendono da pochissimi capostipiti. Ma la loro non è una storia di geni e di cromosomi, o per lo meno non è solo questo: è storia di popoli, di uomini e di dèi, di riti e di religioni, di trovate di marketing ante-litteram, di adattamenti, domesticazioni e rimbarbarimenti.
La storia, o le storie, perché di tante storie si tratta, sono narrate nel libro “La stirpe del vino” di Attilio Scienza e Serena Imazio, Sperling & Kupfer editori. Emergono e si intrecciano nell’esposizione affabulante del professore, che racconta di storie di conquiste, di mercanti e di imbrogli, di popolazioni accompagnate dal vino e che hanno accompagnato il vino nel suo viaggio nel mondo.
L’occasione è la serata organizzata con gli autori dalla Fisar Milano per illustrare il libro agli appassionati e anche per testare sul campo le tesi del libro. Occasione che colgo al volo, ho già avuto modo di sentire parlare Scienza e so che non parlerà di viti, di geni e di genomi ma di umani: non dei re e dei condottieri e degli eserciti dei quali molto è stato detto, ma dell’uomo comune che produceva e coltivava e beveva e in cui, in fondo, anch’io mi riconosco.
È questo rapporto con l’uomo che ha imbastardito i vitigni. Appunto, la vittoria dei bastardi: e del resto, aggiunge Scienza, in natura non esiste la purezza, la purezza è una frottola ideologica e la qualità nasce dalla mescolanza.
Da poco abbiamo le tecniche di analisi del DNA, che in alcuni casi hanno confermato le teorie accreditate fino ad oggi, ma spesso le hanno smentite. E questo ha voluto spesso dire ripartire da zero con un lavoro corale di archeologi, biologici, enologi, antropologi e linguisti.
Che le teorie fossero smentite è successo con i Lambruschi, quello di Sorbara ma anche quello a foglia frastagliata della Valdadige. Perché si è sempre raccontato che la domesticazione della vite ha avuto origine tra Siria e Caucaso e poi di lì esportata, ma in quelle parti d’Italia la vite è stata ridomesticata autonomamente.
È successo anche con le vigne di Leonardo. La Malvasia di Candia allevata da Leonardo nella Casa degli Atellani non viene da Candia, cioè da Creta, come si pensava: ma da Candia, piccola zona nella Lomellina dove un tempo c’erano i vigneti, prima della fillossera.
Ed è successo a seguito dei viaggi di Fosco Maraini, papà di Dacia Maraini, tra i Kalash, in una regione racchiusa tra Afghanistan e Pakistan. Questa popolazione raccoglie l’uva selvatica allevata a vite maritata, cioè abbinata a un altro albero che la sostiene, come avviene oggi in Campania per l’uva Asprinio; il vino viene consumato in un rito orgiastico di iniziazione, un po’ come i riti dionisiaci dell’antichità.
Leggere di questa storia è come aprire una finestra su un mondo di diecimila anni fa, un’idea che per me ha un fascino incredibile.
E ancora: la cultura del vino non ha un unico punto di origine o di domesticazione, come si pensava un tempo; ciononostante, percorre comunque la strada che va da oriente a occidente. La percorre con i vasai, ambulanti che hanno scoperto il marketing: per indurre le persone a comperare i vasi, bisogna creare nei potenziali acquirenti il bisogno dei vasi.
Cioè, ragionano i vasai, bisogna trovare qualcosa da metterci dentro, qualcosa di nuovo, che magari ci portiamo appresso con noi. Deve pesare poco, dare un prodotto piacevole, da conservare per essere consumato in seguito. Noi gli insegniamo a produrlo e loro ci comperano i vasi.
Cosa, per questo progetto, meglio del vino? Così le barbatelle e i loro geni viaggiano, appaiati a quelli delle popolazioni che le trasportano.
Scienza continua, racconta di Venezia, del Moscato e della Malvasia, della corrispondenza straordinaria tra i popoli, i loro dialetti e i vitigni che questi popoli hanno trasportato … ma ho scritto troppo e dovrei scrivere altrettanto, scorro il libro e ritrovo tutto questo e altro ancora, una scrittura accessibile e scorrevole. Dev’essere un piacere da leggere.
La degustazione che fa da complemento alla presentazione del libro è incentrata sul Sangiovese, al quale è dedicato un capitolo, nonché ai suoi avi e discendenti. Tutti loro devono la loro fortuna al gusto, certo, ma in buona parte anche al colore, che ricorda quello del sangue. Per questo motivo il Sangiovese è sempre stato ritenuto il vino perfetto per accompagnare cerimonie e riti religiosi, prima pagani e poi cristiani.
Perché scegliere il Sangiovese per questa serata? Perché è perfetto anche per illustrare le mutazioni che coinvolgono i vitigni.
I vitigni si modificano tramite variazioni epigenetiche a causa dell’azione dell’uomo e per adattarsi al territorio in cui vengono impiantati, al punto che oggi si contano un centinaio di cloni di Sangiovese. L’epigenetica, dice Scienza, è il DNA che impara. È il vitigno che si muta per adattarsi all’ambiente e all’uomo che lì lo ha collocato e lo governa.
Così anche noi viaggiamo tra quattro vini, da vitigni nelle cui vene scorre sangue di Sangiovese: Frappato, Nerello Mascalese, Gaglioppo e infine, per l’appunto, Sangiovese. I vini degustati sono:
- Vittoria Frappato 2017 (Frappato) – Planeta
- Etna rosso 2017 (Nerello Mascalese) – Cantina Barone di Villagrande
- Duca Sanfelice Riserva 2015 (Gaglioppo) – Cantine Librandi
- Morellino Vignabenefizio 2017 (Sangiovese) – Cantina Vignaioli del Morellino di Scansano
Rubino quasi brillante il Frappato, floreale, con profumi di terra e sottobosco, personalmente mi è sembrato un po’ ridotto, un po’ sulfureo; qualche profumo marino in sottofondo.
L’Etna Rosso è più carico come colore, ha un bel bouquet elegante di prugna, qualche ricordo di violetta, qualcosa forse della botte di castagno in cui viene affinato e da cui trae i suoi tannini morbidi.
Il Cirò è un po’ più chiaro rispetto all’Etna, al naso si avverte una nota fruttata, una balsamica e una nota terrosa, come di sottobosco, bene integrata; infine un richiamo vegetale. Era un vino amaro che è stato migliorato negli ultimi anni, dice Scienza.
Il Morellino è sempre rosso rubino, con sentori di prugna, note balsamiche ed ematiche, un ricordo di rosa o geranio. Morbido, tannino delicato.
C’è una buona contiguità tra i quattro vini, nell’acidità che in tutti è ben presente, nel colore, nel corpo. È un po’ il gioco che si fa con i neonati, assomiglia al nonno, no, allo zio, no, al lattaio … ma le somiglianze sono evidenti e, ormai, come sappiamo, non sono casuali.
È che sono tutti dei bastardi.
Erano mesi che venivo descritto da un Lorem Ipsum e non mi decidevo mai a cambiarlo. Un po’ per pigrizia, ma anche perché mi piaceva che a descrivermi fosse un nonsense poetico, che parlava di un luogo remoto, lontano dalle terre di Vocalia e Consonantia … oggi però sento che è venuto il momento.
Lombardo di nascita e residenza, trentino di origine e di cuore, qualche affetto mi lega anche al Piemonte. Di mestiere faccio altro, il consulente di ICT Management; fino a non molto tempo fa il vino lo ho frequentato solo dall’orlo del bicchiere.
Conosco Cosimo Piovasco di Rondò da quando eravamo bambini; un giorno ho cominciato a scrivere su Trentinowine, per gioco, su suo suggerimento, e per gioco continuo a farlo. Seguo il corso di sommelier della FISAR Milano, divertendomi un sacco.
Più cose conosco sul vino, meno mi illudo di essere un professionista o un esperto. Qualcuno, ogni tanto, dice di leggermi e di apprezzare questo mio tono distaccato; io mi stupisco sempre, sia del fatto che mi leggano, sia che apprezzino. E ne vado fierissimo.