Qualche lettore ha fatto notare che a parte la contrarietà agli oligopoli vitivinicoli trentini, non si capisce bene dove noi (A.T./B.R.) si voglia andare a parare. Giusto. Se questo è ciò che resta, vuol dire che l’articolo di qualche giorno fa non era chiaro abbastanza, avendo dato per scontato che il pregresso del discorso fosse noto a tutti.
Allora, a costo di far annoiare chi ci segue puntualmente, ecco una sintetica ricapitolazione.
1. Non abbiamo mai criticato gli oligopoli in quanto tali, sostenendo addirittura che se non ci fossero, in Trentino bisognerebbe inventarli. Essi hanno avuto e hanno una funzione insostituibile nel quadro economico da parecchi decenni.
2. La critica, questa sì, è volta al ruolo che gli oligopoli hanno assunto nel condizionare/bloccare la politica di territorio. L’hanno condizionata piegandola alle loro esigenze, imponendo ad esempio una indiscriminata piantumazione di Pinot grigio e riducendo le storiche Cantine di primo grado a meri centri di raccolta in funzione loro.
3. Il chiarimento necessario, in effetti, riguarda la compatibilità delle due impostazioni (quella industriale e quella territoriale): l’una non esclude l’altra, mentre negli ultimi vent’anni si è essenzialmente privilegiata l’opzione favorevole ai bisogni immediati dei grandi gruppi del Pinot Grigio relegando tutto il resto in poche linee commerciali dove spesso nemmeno il premium price copre i costi di produzione.
4. Cavit e Mezzacorona hanno seguito dinamiche simili, ma alla fine divergenti. Essendo poi Cavit con le sue 11 Cantine socie più capillarmente estesa sul territorio è logico partire da Cavit per rivitalizzare un territorio che è andato svaporandosi.
5. Le colpe, perché di questo si tratta, sono molteplici: in primis le stesse Cantine di primo grado (non tutte) che nel periodo considerato hanno via via rinunciato al loro ruolo-guida per la (loro) centrale d’imbottigliamento finendo col farsi indicare da questa la via da seguire.
6. Al netto degli eventi esterni (globalizzazione dei mercati) sul banco degli imputati va messa anche la Provincia Autonoma di Trento che avendo competenza primaria in agricoltura non ha esercitato il suo compito di indirizzo, coordinamento e controllo lasciando che di tutto ciò si occupasse Federcoop, dove l’indirizzo è sempre stato dettato da Mezzacorona. Cavit non ha mai nemmeno dovuto esporsi, ma non si possono dimenticare i guai successi.
7. Un tempo (fin dal 1949), in Trentino funzionava un Organismo interprofessionale che aveva compiti di tutela e valorizzazione delle produzioni (Comitato vitivinicolo). Cantine Sociali, Commercianti-Industriali ed Aziende Agricole singole, pariteticamente rappresentate, si rapportavano con gli Enti pubblici deputati allo sviluppo del settore: in 50 anni il Trentino si inserì nel ristretto novero dei più prestigiosi produttori nazionali.
8. Sul far del terzo millennio sono saltati gli equilibri: diventate industrie enologiche a tutti gli effetti, Mezzacorona e Cavit decisero di sciogliere i vincoli di un sistema territoriale che pure stava dando i suoi frutti, imponendo una nuova parità (?) nell’interprofessione, creando il Consorzio Vini dove la maggioranza assoluta è in mano loro. Per paura di non aver più nulla da dire, buona parte dei “privati” vi partecipa da allora pur sapendo di non poter incidere sulle linee oligopoliste.
9. Dopo altri 20 anni, e siamo all’oggi, il Trentino dei vini di Qualità è sparito dai radar della stampa, dell’Ho.re.ca. ed è poco presente anche nella GDO. L’80% delle vendite degli oligopoli, infatti, va all’estero con brand aziendali e al proprio brand aziendale hanno dovuto aggrapparsi per sopravvivere anche i “privati”.
10. Non poter sfruttare il proprio cognome “Trentino” come fanno egregiamente i colleghi altoatesini col “Suedtirol” è un grave handicap per tutti i nostri operatori, Cantine Sociali o Vignaioli che siano. Certo, il Trentino DOC esiste, ma è compresso dalle referenze al ribasso degli oligopoli che guadagnano sulle grandi masse imbottigliate piuttosto che sulle selezioni delle linee di qualità che il mercato, a ben guardare, non riconosce loro.
Fin qui un’analisi stringata, criticabile fin che si vuole, ma purtroppo realistica.
Orbene, detto che gli oligopoli possono benissimo convivere sinergicamente con un progetto territoriale (piano Alfa), vediamo alcuni punti che si potrebbero discutere su un ipotetico tavolo di concertazione, quale dovrebbe essere un rinnovato Consorzio Vini veramente interprofessionale e paritetico.
A. La PAT non può continuare a chiamarsi fuori, è tutto il territorio vitivinicolo che è in gioco e non si può continuare a lasciar giocare il management degli oligopoli. Per essere chiari: se Trump blocca il Pinot Grigio il manager allarga le braccia, si appella al politico romano (che fa quel poco che può) ma la redditività del sistema ne soffre subito. Al massimo il CdA rimuove il manager con lauta buona uscita. Ergo, serve comunque e subito un Piano Alfa promosso dalla Giunta provinciale. Se non lo fa la Giunta, lo sottopongano le Aziende con annessa richiesta di cofinanziamento.
B. Il Piano ridisegna il Trentino vitivinicolo prossimo venturo basato su 4-5 distretti produttivi omogenei, dove la Cantina sociale di riferimento estende al territorio di competenza nuovi servizi a soci e non soci: dall’assistenza tecnica in campagna, alla vinificazione/imbottigliamento fino alla commercializzazione. Una rivoluzione che non deve far paura, i nostri padri hanno dovuto e saputo fare anche di più. Ci si può dare un arco temporale di 10 anni.
C. È chiaro che l’obiettivo è quello di rilanciare “Trentino”, il cognome che abbiamo ereditato e che siamo chiamati a trasmettere – migliorato – alle future generazioni. O lasciamo loro solo la tessera di socio, magari con i valori fondiari abbassati dall’esasperata competizione globalizzata? Dai, su! Affianchiamolo ‘sto piano Alfa all’azione fin qui meritoria degli oligopoli. Del diman non c’è certezza e stare su una gamba sola è da incoscienti.
D. Sappiamo che un territorio per vini di Qualità deve essere rappresentato sui mercati di riferimento (non necessariamente quello globale, date le ns. dimensioni) da un certo numero di imprese produttrici-imbottigliatrici. In Trentino, per la concentrazione del 90% dell’offerta in un paio di oligopoli, ne mancano all’appello circa 350!
E. Dove le troviamo? Come si fa? Beh, oggi vanno di moda le start-up e allora largo a nuovi Vignaioli (gli attuali 70 dovrebbero raddoppiarsi, idem Alto Adige) e largo soprattutto ad una rivoluzione copernicana in ambito cooperativo.
F. La Cantina di primo grado – aiutata dalle competenze di Cavit, novello Copernico – come accennato al punto B., individua un certo numero di soci (che devono rimanere tali) i quali, per disponibilità, caratteristiche mentali, anagrafiche, dimensione aziendale, sono compatibili con lo sviluppo di una filiera personalizzata e altamente qualitativa per arrivare a commercializzare partite di vino col proprio nome, beneficiando via via sempre più anche del succitato cognome territoriale, integrato dai riferimenti geografici più esclusivi, fino alla vigna. Su 5000 soci conferenti se ne trovano 200 con le caratteristiche richieste? Certo che sì.
G. Un’operazione del genere abbisogna ovviamente di incentivi per almeno i primi 5 anni, per cui l’Ente pubblico – finalmente consapevole della necessità/opportunità di una siffatta iniziativa – dovrà predisporsi a destinare le necessarie risorse. Ad occhio, largamente inferiori a quanto finanziato a fondo perduto nei decenni scorsi sia per le Cantine di primo grado che per il secondo grado, ed anche per i Vignaioli.
H. In definitiva, è tempo di finanziare una riconversione del territorio, per averlo più performante e funzionale alla nuova prospettiva. Ne guadagneranno anche i valori fondiari, cui non si pensa mai, attenti come si è al liquidato annuale. E ciò pur sapendo che il liquidato è sempre meno costituito dalla qualità e dalla qualità delle uve conferite, essendo il bilancio delle industrie enologiche locali costituito in prevalenza dal business commerciale del management. Non per niente la scarsa produzione scorsa è stata ben retribuita soprattutto grazie alle ancora favorevoli condizioni di mercato.Fine.
Articolare maggiormente non serve e in definitiva non è nemmeno giusto. Devono essere i produttori a maturare la necessaria convinzione con i loro delegati nelle varie sedi.
PS: Non devono dimenticare, i produttori, che il Trentino ha in serbo un’arma straordinaria che altrove ci invidiano e che – anche qui – gli interessi dei soliti noti hanno tarpato: è la FEM, quella che potrebbe fare la differenza: per il territorio e anche per sé stessa. Né, devono dimenticare, che i veri attori dell’ambiente trentino – dai 50 m. slm della busa di Arco e Riva fino ai quasi 1000 m. slm in cima alla Valle di Cembra e sulle più ripide pendici atesine – sono loro, e solo loro, con il quotidiano impegno personale.
Quindi non occorre aver paura a progettare il nuovo, né di chiedere il dovuto all’Ente pubblico che di fronte a un progetto condiviso non può certo tirarsi indietro.
In alternativa, non resta che accendere una candela al giorno a Sant’Urbano, perché Dio ce la mandi buona.
Angelo Rossi e Tiziano Bianchi: quattro mani e una sola testa. Raramente scrivono insieme, ma ogni volta che scrivono, separatamente, è come lo facessero insieme. Insommma A.T. o B.R. … vedete voi, comunque attenti a quei due…
Buon giorno Giuliano, scusa se non ti ho risposto prima, ma pensavo fosse più adatto alla risposta l’amico Angelo. Tuttavia, siccome pare sparito, provo a farlo io.
Questa è la premessa: si tratteggia per il futuro un orizzonte in cui vi sia un maggior pluralismo nell’offerta del vino territoriale. Ed il pluralismo e la frammentazione virtuosa dell’offerta all’interno delle denominazioni di pregio, sono necessari come l’aria (non lo dico io ma lo afferma la fotografia dei distretti vinicoli di qualità).
Chiaramente questo vale se l’obiettivo è la costruzione di un “edificio” vtivinicolo che metta al centro l’idea di un vino con funzioni metaenologiche, quindi di un vino che sia bandiera e ambasciata del territorio, capace di produrre reddito diretto e reddito indiretto e diffuso sui distretti. E questo non perché per vezzo o per capriccio ci piace il vino da enofighetti, ma perché questa ci pare, confortati da ciò che succede in giro per il mondo, l’unica strada per assicurare una stabile remunerazione ai produttori di materia prima che sfugga all’altalena incontrollabile del mercato globale e una stabilizzazione verso l’alto del valore immobiliare delle proprietà.
Ci sono tante strade per arrivare a questo obiettivo, ma tenuto conto del contesto trentino, segnato da un monopolio (circa il 90 %) delle cantine sociali, mi pare che le strade siano due. Una potrebbe essere quella di temperare l’obbligo di conferimento esclusivo, chiaramente con regolamenti che non penalizzino la CS evitando gli errori che in passato, per esempio, furono compiuti nelle cooperative piemontesi, e quindi aprendo la strada alla nascita di vignaioli che in parte conferiscono e in parte vinificano in proprio, forti di un loro e proprio appeal commerciale, che dovrebbe crescere contestualmente alla crescita del prestigio dei territori. In questo caso, gli attori dovrebbero avere l’animo e la competenza del vignaiolo, sia in campagna che in cantina. L’altra strada, che fra l’altro ad oggi qualche cs ,seppure in forma molto molto marginale e quasi nascostamente già pratica (per esempio la sociale di isera con i vini di Marco Tonini) è quella di incentivare la lavorazione in conto socio; un percorso che preveda la vinificazione separata delle uve di alcuni soci e la produzione della bottiglia con etichetta personalizzata della singola azienda agricola, che a quel punto dovrebbe incaricarsi, almeno in parte, della commercializzazione (per esempio in ambito agrituristico). Le due strade non sono alternative ma possono coesistere. Una ipotesi di questo tipo, per esempio, era stata indicata dal progetto per una nuova cooperazione agricola da Luca Riccadonna, e prevedeva appunto il ristorno sul socio di una parte del prodotto lavorato da distribuire autonomamente nell’ambito delle singole aziende agricole o agrituristiche.
La cooperazione trentina in campo viticolo è abitata da circa 6500 soci, è possibile immaginare che il tre per cento di loro, motivato e legato a territori particolarmente vocati e a zone e a vigne cru, possa incamminarsi lungo questi binari, con microproduzioni, diciamo mediamente 5/10 mila bottiglie, che possono essere distribuite autonomamente, nell’ambito dell’azienda agricola (ambasciata del territorio), attraverso i canali commerciali della loro cantina di riferimento e attingendo perfino alla solidissima e diffusa rete commerciale del consorzio di secondo grado. Perché. sia chiaro. nessuno, qui – almeno né io né Angelo – pensa di anestetizzare o addirittura di comprimere il ruolo delle cs e del consorzio, ma semmai di riformarne il modello, lasciando a quest’ultimo il compito della distribuzione e della produzione industriale, alle cs il compito del vignaiolo collettivo e al socio di provare ad assumere un ruolo più consapevole e interattivo e imprenditoriale.
So di non essere stato esauriente, ma almeno spero di aver chiarito il nostro pensiero.
Sei stato esauriente, grazie. Ora sarebbe bello sentire il parere di qualche “soggetto competente” come lo definisce Borzaga sul Corriere del Trentino per capire cosa impedisce alle coop di fare quello che chiaramente suggerisci tu.
Chiederemo a Borzaga…e ai tecnocrati.
Alcuni giorni fa ho fatto una domanda al quale non ha risposto nessuno, evidentemente era sbagliata la domanda e allora provo con un’altra domanda…
Nel post se ho capito bene si parla di creare un team in ogni cantina sociale per “creare” mi si passi il termine un vino bandiera che possa poi trascinare tutto il resto, cosa che a dire il vero già si tenta di fare ma evidentemente non è sufficiente, ebbene allora chiedo: non sarebbe meglio a questo punto piuttosto abbassare le rese ad ettaro per tutti e tutte le varietà e così fare un vino che “vada” da solo? E magari dare ai viticoltori anche più formazione a 360 gradi cosicché possa competere con altri vini e altri territori? Altrimenti siamo qui a creare business solo a chi produce bottiglie di vetro, no? 😜
Mi piacerebbe, se possibile, leggere un approfondimento circa le caratteristiche che dovrebbero avere i 200 soci necessari per, come dite voi, dare il via allo sviluppo di una filiera personalizzata e altamente qualitativa per arrivare a commercializzare partite di vino col proprio nome, beneficiando via via sempre più anche del succitato cognome territoriale, integrato dai riferimenti geografici più esclusivi, fino alla vigna. Grazie in anticipo.