Voglio esprimere alcune brevi considerazioni alla luce della partecipazione al corso ABC del Vino. Faranno sicuramente cadere le braccia ai maestri che abbiamo avuto e all’ideatore – animatore, ma le faccio ugualmente, in tutta la mia ingenuità e grossolanità di gusti, di cui sono perfettamente consapevole. In riferimento in particolare alla disanima dei vini rossi, si parla di ricordo di gusto di mora, ciliegia, prugne cotte, fragola e, se barricato, di vaniglia, pepe di vari colori, legno più o meno stagionato, sia che si parli di Teroldego, Barolo, Primitivo, Barbera, Sangiovese, tanto per citare i primi rossi che mi vengono in mente. Quindi, facendo una semplificazione notevole, tutte le uve rosse da cui provengono i vini sono quasi uguali per i sapori e profumi. Una delle aspirazioni che avevo prima del corso era di incominciare a riuscire ad individuare i vini da monovitigno ad occhi chiusi e a bottiglie schermate: aspettativa che è venuta meno. Quindi il vecchio detto da semplici bevitori “basta che sia rosso“… non è poi cosi peregrino e becero. Cosa ne dite?

Per degustare dobbiamo dare un giudizio che si spera oggettivo con degli strumenti, i nostri sensi, molto soggettivi. Già questo punto di partenza ti può suggerire la fallacia intrinseca del metodo. Però è anche vero che il vino contiene dei profumi e dei sapori che hanno difficili nomi tecnici di composti chimici che quindi possiamo tradurre in termini più evocativi, ricordando fragole lamponi mirtilli o cuoio.
Fatta questa premessa un po’ noiosa devo dire che evidentemente il corso ti sta (scusa se ti do del tu) tornando utile. Stai imparando che molti vini hanno gli stessi odori o sapori. O quantomeno sentori comparabili. Stai aumentando la tua competenza sensoriale. Degustare può essere certamente diventata una cosa da fighetti come dice Angelo, ma può anche essere un momento di crescita per te. In questo periodo di prevalenza di internet l’occhio e le immagini sono il senso più sviluppato. Mentre l’olfatto e il gusto sono meno sollecitati. L’olfatto in particolare. Ma vedrai che andando avanti ti si risveglierá sempre di più. E quando farai una passeggiata nel bosco ti verrà naturale strappare un filo d’erba e annusarlo, un fiorellino e annusarlo ecc. E con il tempo sarai capace di distinguere ciò che adesso ti sembra uguale, esattamente come una mamma distingue i diversi pianti del suo bambino, che invece sembrano agli altri tutti uguali.
Per vedere quanto sei capace tu come degustatore, prova a fare il cd. detto test triangolare, fatti servire alla cieca in tre bicchieri due vini uguali e uno diverso (ad esempio due bicchieri di uno stesso anno ed un bicchiere di un anno diverso, o due riserve uguali e un base) . Così non dovrai giudicare il vino ma te stesso, se riesci ad individuare i due vini uguali.
Ecco, per questo non mi preoccuperei troppo se tutto adesso ti sembra uguale o ti viene descritto come uguale. Tutti noi, specialmente i commentatori, sanno che tipo di vino preferiscono. Chi più fruttato, chi più acido chi più magro chi piú opulento. Sappiamo che non è tutto uguale.
Infine una nota personale. Oggi sono stato nella cantina di Albino Armani ed ho incontrato il figlio -bravissimo fra l’altro- che mi ha raccontato con passione i vari stili di Valpolicella e quanto i suoi siano meno fruttati Più acidi più bevibili. È cioe stato capace di descrivermi un vino che ho preso proprio perché incontra i miei gusti. Non scoraggiarti se non conosci un monovitigno o uno specifico vino. Forse ci arriverai e forse no ma il viaggio sarà stato emozionante.
Un caro saluto ed un abbraccio a Cosimo ed a Masciarello, i miei amici.
PO.
Massarello, chiedo scusa per il correttore
siamo una nazione di allenatori di calcio,di medici che si informano su google e anche di esperti di vino.
suggerirei,sperando di non essere offensivo,a chi si avvicina al mondo del vino di non voler sapere tutto e subito.
l’enologia è fatta di mille variabili.
gli enologi che ci lavorano da anni ne comprendono tutta la complessità.
indovinare l’annata,il vitigno,la zona di produzione è simpatico,ma ricorda più rischiatutto che il lavoro in cantina.
Caro Gianni, dopo albergatori, pub, “locali non essenziali” anche gli enologi pagheranno questo virus, come il vino che non è più così essenziale e altolocato come un tempo sia per consumi che per politiche distributive.
La quantità ha superato le richieste e non bastano HoreCa o cantinette paesane a salvare questo mare di enologi, bevitori da salotto, enzimi e sali minerali vari ……
Anche il grande Pietro Nenni, avrebbe concordato sull’assunto..
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Se posso permettermi, da uno che ha partecipato per la prima volta ad un corso sul vino, proverei a dare questo suggerimento in merito al livello del corso, nel senso di corso base, non di qualità. Quando, per esempio, si inizia a parlare di acidità del vino e poi si fa una degustazione di 4, 5 vini, come nel corso, che probabilmente si differenziano per meno di un punto di acidità, forse sarebbe più utile mettere a confronto ad un estremo un vino con acidità bassissima (tipo vecchi vini meridionali) e all’altro capo del semplice aceto, per far capire le differenze e cosa significa percepire l’acidità.
Mi sembra un ottimo spunto e un buon indirizzo questo. Nel caso si mettesse in piedi ancora qualcosa…, soprattutto visti i tempi che corrono, questa potrebbe davvero essere una buona pista. Grazie Bruno!
Alessandro Torcoli, autore di Vinology, è uno dei due italiani che, insieme all’amico Flavio Grassi, stanno provando a conseguire il titolo di Master of Wine.
In una masterclass che ha tenuto per Fisar Milano sul Montepulciano ci diceva che è molto difficile riuscire a riconoscere un vitigno. Qualcuno addirittura si azzarda a voler riconoscere la cantina e viene guardato con compatimento. La capacità di riconoscere un vitigno si sviluppa secondo lui attraverso una destrutturazione e una ricostruzione delle proprie capacità degustative, confrontando le diverse espressioni dello stesso vitigno su tutto il panorama internazionale.
Il tema della omologazione del gusto dei vini è poi all’origine del movimento dei “vini naturali” che però da una parte è bacato all’origine, perché non c’è nulla di naturale nel vino, e inoltre a mio modesto parere ha prodotto più provocazioni che risposte valide.
Grazie, mi consola nella mia incompetenza
L’incompetenza è un tratto che ci accomuna e che ci perseguiterà a lungo. Cercare di sconfiggerla è il bello di questo viaggio🙂
Ho poco da aggiungere a quello che scrive Stefano. Anche se, in realtà, conosco palati capaci di arrivare al dunque. Almeno ogni tanto. Però al di la delle abilità abilissime di pochi eletti di lunghissima esperienza, credo ci sia un tema fondamentale ed è quello della omologazione e della standardizzazione del gusto. Un processo legato da un lato all’espansione del settore nella grande distribuzione organizzata, che richiede continuità ed omogeneità e semplificazione (perché questo in fondo chiediamo tutti quando ci poniamo dal lato cliente), dall’altro all’affermazione di alcune scuole di pensiero che sono diventate egemoni, e che ciclicamente si ripropongono con nuove varianti (negli anni ottanta la barrique, poi il biologico ora le anfore e perfino la biodinamica e in mezzo un sacco di altre cose). Scuole che fanno prevalere l’elemento della vinificazione, quindi della lavorazione in cantina e del metodo rispetto all’identità territoriale e varietale. E poi ancora l’evoluzione della tecnologia enologica che si è emancipata dall’artigianalità e dal mestiere fino a prevalere, spesso, sulla sensibilità del costruttore di vino. Discorso replicabile anche dal punto di vista agronomico: se tutti usano gli stessi porta innesti è facile che si verifichi una standardizzazione già in vigneto. La risposta a tutto questo, come scrive Stefano, in questi anni è passata per il cosiddetto “vino naturale” che tuttavia nessuno, o almeno io, ha capito cosa sia. A parte la provocazione ancestrale e l’evocazione suggestionante di madre terra e di Demetra.
Condivido. Aggiungo una piccola considerazione: dopo la metà degli anni ’70 alle degustazioni professionali si affacciarono i Somellier, esponenti avanzati del mondo dei consumatori. Giudicavano un vino con un metro diverso da quello fino ad allora usato dai tecnici di cantina che si basavano su uomo-varietà-territorio, per cui ci voleva una competenza specifica. Nella degustazione si iniziò a sentir parlare di sentori di frutta varia e anche di verdure, per arrivare al sottosella del sudore di cavallo. I tecnici si erano fermati al puzzo di crauti all’assaggio degli Champagne.
Il braccio di ferro durò un ventennio e infine la spuntarono i consumatori e i loro anfitrioni, com’è giusto che sia.
Cosicché quando oggi si frequenta un corso di degustazione, l’invito è quello di trovare la nuance del colore da prendere dal prontuario dei pantoni, il profumo dai fiori più disparati, il sapore da quanto di buono o meno buono si trova in frutta indigena o esotica, più o meno matura, ecc.
Un modo questo, pur rispettabile, che fa il gioco dell’omologazione del gusto tanto dei consumatori quanto dell’atteggiamento dei tecnici. Vuoi mettere la fatica che si faceva un tempo a spiegare che la Nosiola dev’essere così, il Marzemino così, il Lagrein invece così, mentre il Teroldego colà… a seconda di terreni, sistemi d’allevamento, vinificazione, affinamento…fino alla manina dell’uomo? Un modello che andava bene per pochi intimi, competenti profondi. Poi si è giustamente democratizzato e globalizzato, con i pro e i contro. Vanno bene i territori estesi e le grandi aziende, masticano amaro le zone ristrette e i produttori piccoli.
Ecco, se al corso di degustazione si ricordassero questi passaggi, forse si riuscirebbe a stimolare nuove curiosità.