Faceva un caldo boia, le valigie erano pesanti e il sole al tramonto si infilava sotto la visiera del berretto. I traghetti e gli aliscafi erano in fila in attesa al porto di Trapani; il caldo del giorno maturo arrivava dall’asfalto, dai muri, dalle cose.
Avevamo perso per una manciata di secondi l’aliscafo, il penultimo, per Favignana. Un’altra ora di attesa, il caldo, la noia, le valigie, il sudore.
Una fila di locali a prima vista identici sul lungomare. Andiamoci a sedere, va. Ci facciamo una birra, un tè.
Mi siedo, e leggo: Winehouse.
Si, vabbé. Mi è già capitato di entrare in “Wine Bar” che avevano quindici etichette, di cui sette di Prosecco extra dry. L’abito non fa il monaco.
Entro. Le pareti sono piene di bottiglie fino al soffitto, con un ampio assortimento di vini, siciliani ovviamente, ma anche del resto d’Italia, e con una selezione di Champagne e di distillati. I tavoli sono botti tagliate a metà piene di tappi, coperte da un vetro. Tutto parla di vino.
Memore della masterclass sul Grillo di Fermento Spring, dall’enoteca scelgo un Grillo nisseno, che infatti non mi deluderà.
Il ragazzo che mi serve dev’essere il figlio dei proprietari. Mi dice che il locale è aperto dal 2017.
Scriveva John Cage di aver scoperto, in una camera anecoica, che il proprio corpo produceva due suoni, normalmente inudibili: uno dalla circolazione sanguigna, uno dal sistema nervoso. E concludeva: “Finché sarò vivo, esisteranno sempre almeno due suoni. Non c’è da temere per il futuro della musica”.
E allo stesso modo finché di fronte al molo, nel viavai di turisti, tra un traghetto che parte e uno che arriva, finché lì, in quei non-luoghi, dove ti aspetti al più dei non-locali che si reggono su caffè e merendine industriali, troveremo una nicchia in cui celebrare Khayyam, non ci sarà da temere per il futuro del vino.