Tonco de pontesel: provate voi a dire tutto ciò, ad un amico, non trentino che viene a trovarvi, magari un vecchio compagno di università. Sono certo, vi guarderà allibito, un po’ stupito e smarrito, vivrà per un attimo nel dubbio che siate cambiati, che qualcosa si è rotto nell’ amicizia o che qualche cosa segna la vostra vecchiaia. Questa frase ha tanto dell’offensivo, del minorato in castigo, all’aperto, fuori casa, al freddo ed esposto al pubblico ludibrio; e invece no, può essere l’inizio di una fitta ed interessante chiacchierata sui costumi alimentari della cucina trentina, della sua dignità povera, fatta con la cultura degli stenti, divenuti fantasia creativa. Parole che mimetizzano stramberie culinarie, per capire che il tonco de pontesel era solo un intingolo poverissimo, ove anche l’acqua della pulitura del poggiolo in legno poteva costituire un surrogato alla fame. Torta simona, sguazet, ambleti, fortaie, peclin, per non parlare degli ormai famosi canederli gli strangolapretila mosa, lo strudel e lo zelten.
In Trentino di fame non è mai morto nessuno, ma spesso le cose di prima qualità andavano solo al mercato ed erano destinate a chi aveva risorse per mangiar pregiato, e gli avanzi, gli scarti, i quinti o sesti tagli, andavano in cucina, per la famiglia contadina. Ecco che allora serviva fantasia e capacita di narrazione: qualche ricetta della nonna, se non addirittura di guerra, per decantare valori e qualità nutritive degli avanzi fatti risorsa. Del maiale, come dimenticare la picaia, i piedini, la coda, le orecchie, il musetto, il redesel e le cotiche. Tutto ciò, era quasi sempre un ottimo contorno per crauti e polenta. Poi, principi della cucina contadina erano gli animali da cortile, conigli galline e tacchini, la fabbrica delle uova, mai a sufficienza; ma nulla andava sprecato, con i fegatini, le interiore, le zampe, le creste ed altri pezzi poco commerciali. Con la fantasia, il tutto diveniva elemento per pasti che quantomeno prima di divenir piatti gourmet, nutrivano il popolo. Il pane non è mai diventato, come ora, mangime per animali; ma gnocchi con abbinate erbe o formaggi grattati, canederli o semplicemente imbevuto nel brodo o nel latte per farne minestre. Le verdure, tutte, diventavano minestroni e le brovadure erano le acque di bollitura dei fagioli e legumi che divenivano magiche minestre, come quella de frigoloti o con quelle che ora si chiamano di celestine ma che erano le frittate, o fortaie, tagliate a listarelle nel brodo. Poi, polenta, tanta polenta, con tutto: formai rostì, coniglio, crauti, cotechino e puntine, pezzi di maiale che non si riuscivano a spolpare per divenir salumi ma diveniva tutto roba da crauti.
Ecco un piccolo spaccato di cucina trentina povera, quasi misera, fatta di elemosine creative per la fame, ma nel contempo una lezione attualissima, nel tempo del culto del riuso. Ricordo che settimanalmente nei paesi passava il marden, l’uomo col carretto e la trombetta che gridava “straze, ossi, ferro vecio, pel de cunicio, ghe el sdrazzaro” e spesso la mamma diceva: “Oggi non abbiamo nulla”. Penso alla raccolta dei rifiuti, come la viviamo oggi, e mi convinco che il mondo, e non solo la cucina, è cambiato molto, anche nei sui costumi. I contadini, con le loro povere cucine ospitavano sfollati e divenivano spesso punti d’incontro per viandanti e venditori ambulanti. E chi, come me, ha vissuto di striscio e con freschi racconti queste pagine di storia, si gusta volentieri un piatto di canederli e sorride se vede scritto su un menu tonco de pontesel.
